Estratti dall'Introduzione all'antologia di scritti Questioni mortali. L'attuale dibattito sulla morte cerebrale e il problema dei trapianti, a cura di R. Barcaro e P. Becchi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2004, pp. 7-43.
[... omissis ...]
2. Nei primi anni Cinquanta del XX secolo
l'introduzione delle tecniche artificiali di supporto vitale ha consentito di salvare la vita a soggetti che avevano subìto un grave trauma accompagnato da temporaneo arresto cardiocircolatorio, ma al tempo stesso ha generato una nuova condizione clinica mai osservata prima, e riscontrabile soltanto in pazienti collegati al respiratore: pur essendo privi della capacità di respirare autonomamente, in coma irreversibile, nell'impossibilità di ritornare ad un normale stato di coscienza, tali pazienti potevano rimanere in una condizione di
"sospensione della morte" per un periodo di tempo variabile prima di andare incontro ad arresto cardiocircolatorio definitivo.
Negli anni pionieristici della rianimazione i medici si sono così trovati a fronteggiare circostanze inedite ed a dover decidere quali scelte compiere una volta accertato che questi pazienti, sottoposti a trattamenti dei quali a priori era difficile valutare l'efficacia, non avrebbero ripreso conoscenza: era ipotizzabile la sospensione della ventilazione meccanica, oppure tale atto avrebbe potuto essere concepito come omicidio colposo, se non volontario, e dare corso ad un procedimento penale nei confronti del personale sanitario?
Accanto alla questione relativa alla liceità della sospensione del sostegno artificiale, si poneva un ulteriore problema concernente la possibilità di prelevare organi da questi pazienti e destinarli al trapianto, un problema squisitamente pratico posto con il primo intervento di sostituzione del cuore effettuato nel dicembre 1967 dal cardiochirurgo sudafricano
Christiaan Barnard: il reperimento di organi in buono stato di conservazione, prelevati in tempi rapidi, sembrava essere la garanzia della buona riuscita dell'operazione. Quale
fonte di organi poteva essere ritenuta migliore dei soggetti che, pur avendo subìto lesioni cerebrali irreparabili tali da compromettere
definitivamente la capacità di coscienza, ancora conservavano in ottimo
stato di funzionamento i loro sistemi organici?
Già da qualche
tempo il fenomeno del coma irreversibile aveva richiamato l'attenzione dei neurologi ed in particolare sul finire degli anni Cinquanta due studiosi francesi,
Mollaret e Goulon, avevano descritto una condizione chiamata coma dépassé, ossia uno "stato oltre il coma", riscontrabile soltanto in soggetti collegati alle apparecchiature per la ventilazione polmonare. Tra le caratteristiche del coma dépassé essi avevano segnalato l'incapacità del paziente di respirare autonomamente e l'assenza di sensibilità, di riflessi agli stimoli, di motilità e coscienza.
Mollaret e Goulon si erano limitati alla descrizione del fenomeno, rilevando che la nuova situazione era il prezzo da pagare allo sviluppo scientifico e tecnologico, ma non si erano spinti ad ipotizzare una eventuale equivalenza tra
coma dépassé e
morte
dell'organismo.
Negli U.S.A. circa dieci anni più tardi veniva pubblicato il documento al quale si fa costante riferimento quando si discute del fenomeno della 'morte cerebrale', ossia il rapporto redatto dal cosiddetto Ad Hoc
Committee of the Harvard Medical School to Examine Brain Death, un gruppo di esperti incaricati di prendere in esame la condizione di coma irreversibile. Il Comitato aveva individuato i
criteri per effettuare una diagnosi di coma irreversibile, equiparata alla perdita permanente delle funzioni cerebrali, dalla coscienza ai riflessi del tronco encefalico, e in ultima istanza ritenuta equivalente alla morte.
Per tale diagnosi era necessario riscontrare nel paziente:
1) non recettività e non responsività;
2) assenza di movimenti o respirazione spontanei;
3) assenza di riflessi;
4) tracciato elettroencefalografico piatto, al quale il Comitato aveva attribuito valore di conferma della diagnosi.
Secondo le raccomandazioni contenute nel rapporto, a distanza di ventiquattro ore doveva essere ripetuto l'esame clinico per confermare i risultati ottenuti dalla prima rilevazione e rendere possibile la dichiarazione di morte del paziente; la procedura doveva essere eseguita da un medico non coinvolto nelle successive operazioni di prelievo e trapianto, per evitare sospetti di presunti indebiti interessi nella dichiarazione del decesso. Tali raccomandazioni provano che i membri del Comitato di Harvard, del quale facevano parte due chirurghi trapiantologi, erano consapevoli delle ambiguità sottese alla applicazione della nuova
procedura per l'accertamento di morte.
Evidentemente ricordavano che
Barnard non si era limitato ad eseguire il primo trapianto di cuore, ma aveva pure condotto l'accertamento e dichiarato la morte del donatore (un paziente sottoposto a ventilazione assistita con traumi cerebrali in seguito ad un incidente): il cardiochirurgo aveva prelevato il cuore dopo tre minuti dall'arresto cardiocircolatorio successivo allo spegnimento delle apparecchiature per la ventilazione e l'aveva trapiantato.
Si può supporre che
Barnard avesse agito in buona fede ignaro dell'esistenza di quello che il Comitato di Harvard deve aver percepito come un 'conflitto di interessi'; proprio il tentativo di cercare di evitare tale conflitto ha richiamato l'attenzione sulla ricerca di un metodo standardizzato in cui risultassero definiti e distinti i ruoli ed i compiti dei medici coinvolti nell'accertamento di morte e nel trapianto.
Le conclusioni raggiunte dal
Comitato di Harvard
erano cariche di significative conseguenze pratiche, ed era inevitabile che di esse si occupassero non solo i medici, ma anche i legislatori. Negli U.S.A. lo Stato del
Kansas (1970) e quello del
Maryland (1971) sono stati i primi ad introdurre leggi che permettessero l'impiego dei criteri neurologici in alternativa a quelli cardiopolmonari quando le circostanze lo consentivano. Ma, come era prevedibile, la coesistenza di differenti modi di determinare il decesso, con criteri ed esami cardiopolmonari utilizzati in modo esclusivo nella maggioranza degli Stati, ha generato situazioni di confusione: un paziente poteva dunque essere dichiarato morto in uno Stato e, contemporaneamente, vivo in un altro se quest'ultimo non era dotato di una legge che ammettesse l'uso dei criteri neurologici.
Lo storico statunitense
Pernick ha rilevato infatti che
"nei dieci anni successivi alla pubblicazione del rapporto di Harvard, le decisioni dei giudici e la legislazione dei singoli Stati crearono un mosaico fatto di nuovi e vecchi metodi, in conflitto tra loro, per l'accertamento della morte della persona". Era quindi necessario porre rimedio a tale situazione.
Nel 1980 era stata costituita dal Presidente degli Stati Uniti una commissione di studio, nota come
President's Commission for the Study of Ethical
Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research, il cui primo intervento ufficiale è stato dedicato proprio al problema della definizione di morte. Nel documento della Commissione erano analizzate le condizioni che avevano reso necessario un aggiornamento delle procedure per la determinazione della morte, e discusse le evidenze mediche e scientifiche che avevano indirizzato i medici verso la comprensione della morte come
"il momento in cui il sistema fisiologico dell'organismo cessa di costituire un tutto integrato". Il documento precisava che
l'encefalo era considerato come l'organo critico dell'integrazione corporea, e la cessazione irreversibile di tutte le sue funzioni decretava la perdita irrimediabile dell'integrazione delle varie componenti dell'organismo e dunque la morte. Ai fini dell'accertamento del decesso, la Commissione ammetteva che si potesse mantenere l'uso dei tradizionali criteri cardiopolmonari e, limitatamente ai casi di pazienti in coma sottoposti a rianimazione, introdurre l'impiego di criteri ed esami neurologici.
E ciò perché secondo la Commissione
"la morte è un fenomeno unitario che può essere accuratamente accertato o mediante la cessazione irreversibile delle funzioni cardiaca e polmonare o attraverso la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell'intero encefalo". Le conclusioni della Commissione miravano a mostrare che la morte cerebrale totale non fosse un radicale cambiamento del concetto di morte, ma soltanto una conseguenza del progresso tecnologico che aveva reso
disponibili alla medicina più affidabili strumenti per rilevare la perdita delle funzioni cerebrali. I criteri e gli esami cardiopolmonari potevano continuare ad essere utilizzati, salvo nei casi in cui le circostanze richiedevano l'impiego di altri criteri e strumenti.
Un'altra significativa conclusione della Commissione riguardava una proposta di statuto da adottare in tutte le giurisdizioni (conosciuto con il nome di
Uniform Determination of Death Act - e l'acronimo U.D.D.A.), elaborato con la collaborazione della
American Bar Association, della American Medical Association, e della National Conference of Commissioners on Uniform State Laws.
Esso riconosceva che:
"un individuo che abbia subìto o 1) una cessazione irreversibile della funzione circolatoria e respiratoria o 2) una cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'intero encefalo, incluso il tronco encefalico, è morto. La determinazione di morte deve essere effettuata in accordo con gli standard medici accettati".
La Commissione si era avvalsa della consulenza di un gruppo di medici, esperti in diverse discipline, per stabilire quali criteri ed esami potessero essere utilizzati per condurre l'accertamento del decesso, dal momento che non era ritenuto compito del legislatore disciplinare una materia di stretta competenza della scienza medica.
In Europa la
Gran Bretagna ha percorso una strada simile a quella statunitense, con alcune distinzioni significative. Innanzitutto i medici britannici per dichiarare il decesso utilizzano criteri neurologici che non accertano la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell'intero encefalo, ma soltanto la perdita delle
funzioni del tronco encefalico. La possibilità di impiego di criteri neurologici alternativi era già stata avanzata nel 1971 da due neurochirurghi del Minnesota,
Mohandas e
Chou, i quali avevano sottoposto ad osservazione i pazienti con danni cerebrali
intracranici ed avevano concluso che i danni irreversibili del tronco encefalico rappresentavano il punto di non ritorno nel processo di morte. La certezza dell'esistenza nel soggetto di lesioni intracraniche irreparabili e l'esclusione di tutte le cause reversibili di disfunzioni del tronco encefalico, come ipotermia ed intossicazione da farmaci, erano presupposti essenziali per la correttezza della diagnosi, per la quale era necessario procedere a valutare
l'assenza di movimenti spontanei, di respirazione (apnea protratta per 4 minuti), di riflessi mediati dal tronco encefalico; la permanenza di tale condizione generale per almeno 12 ore permetteva la dichiarazione di morte.
Mohandas e
Chou ritenevano irrilevante l'impiego dell'
elettroencefalogramma, in quanto durante le osservazioni condotte erano emersi casi di pazienti che conservavano l'attività elettrica cerebrale seppure il tronco encefalico fosse completamente lesionato. Pertanto, una volta soddisfatti i criteri clinici e neurofisiologici della morte cerebrale, essi ritenevano che l'esame condotto con elettroencefalografo fosse da ritenersi privo di valore.
Nel Regno Unito la teoria sostenuta dai due neurochirurghi del Minnesota ha ottenuto ampio consenso, tanto che nel 1976 la
Conference of Medical Royal Colleges and their Faculties in the United
Kingdom ha pubblicato un documento in cui sono contenuti condizioni e criteri clinici necessari per effettuare la diagnosi di morte del tronco encefalico.
Ipotermia ed intossicazione da farmaci dovevano essere escluse come possibili cause del coma, ma il documento britannico faceva anche riferimento alla necessità di escludere altre cause del coma, quali reversibili disturbi metabolici o endocrini. Una volta constatata l'assenza di respirazione spontanea ed accertata la causa del coma, conseguenza di una irreparabile lesione strutturale del cervello, seguiva l'applicazione di prove per rilevare l'
inattività delle pupille alla luce, l'assenza di riflessi corneali, di riflessi vestibulo-oculari, di risposte motorie prodotte da sollecitazioni, di riflessi tracheali, di movimenti respiratori dopo la rimozione del ventilatore ed aumento della percentuale di anidride carbonica nel sangue. Elettroencefalogramma e studi per accertare il flusso del sangue nella cavità cranica non erano richiesti. Il periodo di osservazione poteva variare a seconda della causa del coma: ridotto a poche ore in caso di emorragia cerebrale, prolungato in caso di ischemia. Nel 1979 i Royal Colleges hanno esaminato e confermato i criteri diagnostici stabiliti nel 1976 ed introdotto una novità significativa: la morte del tronco encefalico è stata equiparata alla morte nella convinzione che le lesioni irreversibili del tronco encefalico segnano un
'punto di non ritorno' nel processo di morte.
Nel 1995 un gruppo di lavoro dei
Royal Colleges ha nuovamente preso in esame i criteri per diagnosticare la morte del tronco
encefalico, più che altro con l'intento di adottare una precisa ed articolata definizione di morte che consentisse di spiegare perché la morte di un organo, per quanto importante, possa essere equiparata alla morte dell'intero organismo. La giustificazione ha ribadito gli studi del neurologo inglese
Pallis, secondo il quale in caso di coma, causato da lesioni cerebrali che abbiano provocato la perdita irreversibile della coscienza, sarebbe possibile accertare soltanto le condizioni del tronco encefalico e non tutte le funzioni cerebrali. Inoltre, poiché il tronco encefalico rappresenta il
"sistema critico del sistema critico", ossia è il sistema critico dell'intero encefalo, la sua morte è ritenuta
condizione necessaria e sufficiente della morte cerebrale.
Nonostante la differenza tra i criteri neurologici scelti negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, spetta comunque alle
associazioni mediche il compito di dettare le direttive ed i criteri per l'accertamento della morte. Nell'
Europa continentale è prevalso dappertutto il criterio della morte cerebrale totale, anche se non tutti i paesi si sono spinti sino al punto di stabilire per legge una definizione di morte. Così è invece successo nel nostro paese. Nel nostro paese l'introduzione dei criteri neurologici per accertare la morte è avvenuta in seguito ad intervento del legislatore. Il primo atto si è verificato nel
1975, con una
legge sul trapianto, nella quale si prevedeva l'utilizzo dei criteri neurologici per accertare la morte del donatore di organi. L'accertamento del
decesso mediante criteri neurologici risultava essere limitato ai casi in cui era stata decisa la
donazione degli organi.
Nel 1993 un secondo intervento legislativo ha operato la separazione dell'accertamento di morte dalla questione della donazione. All'
art. 1 della legge viene indicata una definizione legale di morte:
"la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo". La legge non reca indicazione di criteri ed esami strumentali da utilizzare per dichiarare la morte del paziente, un compito che viene demandato ad uno specifico decreto del Ministero della Sanità. La legge del 1993 era stata
preparata dai lavori del
Comitato Nazionale per la Bioetica, il quale nel 1991 aveva redatto il proprio parere sulla definizione e l'accertamento di morte. Il documento del Comitato stabilisce che
"il concetto di morte è definito dalla perdita totale e irreversibile della capacità dell'organismo di mantenere autonomamente la propria unità funzionale" e propone quelli che nei primissimi anni Novanta erano ritenuti incontrovertibili fatti dotati di fondamento scientifico:
"la morte avviene quando l'organismo cessa di essere un tutto" e "esiste un centro coordinatore e unificante nell'organismo umano: il cervello". La totale necrosi di tale organo segna il passaggio dalla vita alla morte, nonostante la possibilità di mantenere per qualche tempo funzionanti gli
organi che possono essere trapiantati.
L'aver equiparato la
morte cerebrale (totale o del tronco encefalico) alla
morte del paziente ha legittimato la procedura di prelevare gli organi mentre ancora erano in funzione le apparecchiature per la ventilazione assistita: la morte del paziente e la necessità di mantenere in buone condizioni gli organi da prelevare sembravano costituire valide giustificazioni. I buoni risultati che la tecnica del trapianto ha iniziato a far registrare hanno contribuito a determinare una circostanza singolare: l'incremento delle liste di attesa dei pazienti bisognosi di un nuovo organo. La scarsità di organi provenienti dal pazienti in stato di morte cerebrale e il fatto di
considerare il trapianto come la terapia più efficace per un sempre crescente numero di patologie, hanno comportato la necessità di incrementare il numero dei donatori. Il dibattito si è arricchito di nuove proposte (l'uso di organi provenienti da animali geneticamente affini
all'uomo, ma anche la produzione di veri e propri organi artificiali) e di 'riscoperte' di procedure che erano state abbandonate o trascurate dopo l'avvento dei criteri neurologici per accertare il decesso.
All'inizio dell'attività di trapianto, gli organi erano
prelevati da donatori cadaveri, il decesso dei quali era dichiarato dopo alcuni minuti dall'arresto cardiocircolatorio. Il
rapporto di Harvard, introducendo il criterio della
morte cerebrale, ha rivoluzionato la procedura di ottenimento degli organi, semplificato
l'organizzazione dell'intervento ed agevolato il lavoro dei chirurghi, ma ha anche circoscritto il pool di potenziali donatori. La situazione di scarsità di queste risorse ha indotto a studiare metodi per recuperare organi da cadaveri a cuore fermo prevenendo i danni dovuti all'arresto cardiocircolatorio. Gli esiti favorevoli soprattutto nel caso del prelievo dei reni, si sono ottenuti nei centri che hanno adottato la procedura di prelievo dai cosiddetti
non-heart-beating cadaver donors, ossia i
donatori cadaveri a cuore fermo, contrapposti ai
heart-beating cadaver donors, pazienti in condizioni di morte cerebrale, nei quali la ventilazione artificiale viene continuata durante il prelievo.
Alcuni paesi d'Europa hanno adottato, o mantenuto, questa procedura accanto a quella del prelievo da heart-beating cadaver donors: in ospedali universitari a
Maastricht e Zurigo, ad esempio, si operava sin dagli inizi dell'attività del trapianto con reni ottenuti da cadaveri a cuore fermo, senza che ci fosse una procedura standardizzata. Il passo più significativo verso la standardizzazione è stato l'approvazione nel 1992 di uno specifico protocollo per il prelievo degli organi da cadaveri a cuore fermo, avvenuto negli U.S.A. ed indicato con il nome di
'protocollo di Pittsburgh'. Esso rappresenta il tentativo
fatto da un Centro di trapianto statunitense di formalizzare la procedura per la dichiarazione di morte, la gestione dei pazienti morenti ed il prelievo degli organi da donatori a cuore fermo e per superare i problemi etici generati da tale pratica. Le norme previste da tale protocollo sono state modificate ed adottate da alcuni centri europei.
Il protocollo di Pittsburgh si riferisce esclusivamente al prelievo di organi
da pazienti il cui decesso sia stato la conseguenza della sospensione dei trattamenti, che si rivelino per il paziente un peso eccessivo rispetto ai benefici attesi; la richiesta di interruzione può essere presentata dal paziente, o dalla sua famiglia o da chi agisce in sua vece (ad esempio dal tutore legale); la dichiarazione di morte deve essere conseguenza di un
accertamento condotto mediante l'uso di
criteri cardiopolmonari. La richiesta di donare gli organi dopo la morte deve essere avanzata dal paziente o dalla sua famiglia, e non da medici o membri dell'organizzazione ospedaliera, per evitare indebite pressioni sul malato. Secondo il protocollo devono essere fornite tutte le informazioni indispensabili per ottenere il consenso informato all'avvio delle operazioni di prelievo e tale consenso potrà essere revocato in qualsiasi momento senza che ciò comporti costi o pregiudizi verso il paziente. Tra
le informazioni fornite al paziente si devono ricordare quelle relative alla sospensione dei trattamenti che sarà completata nella sala operatoria, dove saranno posizionati cateteri per la perfusione degli organi prima che si sia verificato l'arresto cardiocircolatorio e al prelievo degli organi che inizierà successivamente al decesso, dichiarato due minuti dopo l'arresto cardiocircolatorio.
La decisione di interrompere i trattamenti costituisce il presupposto per la futura utilizzazione del corpo, così come il consenso dell'interessato
rappresenta la condizione di liceità dei successivi interventi necessari per il controllo del processo di morte e la conservazione degli organi. Oltre il coinvolgimento dei pazienti che richiedono la sospensione dei trattamenti, caratteristico del protocollo di Pittsburgh è il tempo di attesa di soli due minuti; essendo esso estremamente ridotto consente ai chirurghi di espiantare tutti gli organi del deceduto e di trapiantarli con buone possibilità per il ricevente; d'altro canto ciò comporta grossi problemi etici
(due minuti sono troppo pochi per stabilire il decesso di un paziente).
Questo spiega perché altri protocolli
attualmente in uso in
Europa propongono prudentemente un periodo di attesa più lungo. Il protocollo di Maastricht, adottato dall'
Ospedale Universitario olandese nel 1995, prevede che la dichiarazione di morte possa essere effettuata dopo dieci minuti dall'arresto cardiocircolatorio e che si possano utilizzare donatori appartenenti a quattro diverse
categorie:
a) soggetti che sono stati dichiarati morti al di fuori della struttura ospedaliera;
b) pazienti che sono stati sottoposti senza successo alle procedure di rianimazione;
c) pazienti terminali ai quali sono sospesi i trattamenti;
d) pazienti in presunte condizioni di morte cerebrale che hanno subìto un arresto cardiocircolatorio prima che fosse iniziato l'accertamento di morte.
Il tempo di attesa di dieci minuti impone restrizioni al tipo di organi da prelevare: a causa dei danni che la mancanza di circolazione può produrre e per limitare il conseguente rischio di esporre il ricevente ad un trapianto con scarsa possibilità di riuscita, dai donatori a cuore fermo sono prelevati soltanto i reni.
Nel
Dipartimento di Chirurgia Viscerale e Trapianto e nella Divisione di Nefrologia dell'Ospedale Universitario di Zurigo, l'adozione del protocollo olandese ha comportato una modifica al fine di uniformare il tempo di attesa dopo l'arresto cardiocircolatorio, passando dai cinque minuti, decisi dal gruppo svizzero, a dieci minuti di attesa. Sebbene questi centri europei di trapianto fossero operativi da diverso tempo (Maastricht aveva iniziato il programma di trapianto nei primi anni Ottanta e Zurigo
nel 1985) non erano dotati di un protocollo formale che stabilisse le modalità operative da seguire per il reperimento degli organi. Questa
esigenza è emersa dopo che il dibattito internazionale sul protocollo di Pittsburgh ha mostrato nuove opportunità di ottenimento degli organi e
nuovi problemi etici, come quello della deliberata scelta di sospensione di trattamenti, che comporta comunque la morte del paziente.
I
protocolli per il prelievo di organi da donatore a cuore fermo - è bene qui sottolinearlo - non sono pensati in alternativa alle procedure di
prelievo da donatore a cuore battente, bensì sono stati affiancati ad esse per cercare di sopperire alla costante carenza di organi da trapiantare.
Tuttavia il loro impiego induce ad una prima considerazione generale: almeno per il trapianto di alcuni organi non è affatto indispensabile la
nozione di morte cerebrale. Sui riflessi etici di questa conclusione fattuale torneremo in seguito. Dopo questa breve storia della nuova
definizione di morte, che già termina con una parziale riabilitazione di quella tradizionale, bisogna ricostruire un'altra storia: quella delle
reazioni suscitate dalla nuova definizione di morte.
3. In ordine cronologico la prima reazione al rapporto del Comitato di Harvard,
pubblicato nell'agosto del 1968, proveniva da
Hans Jonas, che con grande tempismo già in un intervento tenuto nel mese successivo, aveva
avanzato una sua prima critica alla definizione proposta da quel Comitato, poi ripresa e sviluppata ulteriormente in un saggio,
Against the
Stream, considerato ormai un classico della letteratura sulla morte cerebrale. Lo ripresentiamo qui con quella presa di posizione iniziale e
tutte le successive postille. Ad esso aggiungiamo una corrispondenza, che di poco precede la morte di Jonas, segno della sua costante attenzione a
questo problema. L'occasione di quella corrispondenza era data da un caso che si era verificato in
Germania, di una donna dichiarata
cerebralmente morta, mantenuta tuttavia in quella condizione con lo scopo di farle proseguire una gravidanza in corso. Il caso contribuì a
riaccendere in Germania la discussione sulla morte cerebrale
(come poteva un cadavere portare avanti una gravidanza e addirittura - come
avvenne - 'decidere' di interromperla con una aborto spontaneo quando il feto non era più vivo?) e le 'vecchie' tesi di Jonas dimostrarono di
non essere affatto invecchiate.
Con la nozione di morte cerebrale il Comitato di Harvard aveva preteso di dare una definizione precisa di un
fenomeno che di per sé non lo consente: non è possibile tracciare una netta linea di demarcazione tra la vita e la morte e per questa ragione è
meglio usare - se proprio si vuole - una definizione di morte la più ampia possibile, che tenga cioè conto di tutti gli elementi a nostra
disposizione
(e non soltanto di quelli connessi al funzionamento di un unico organo, sia pure determinante come il cervello). Inoltre
Jonas esplicitava la sua diffidenza verso questo tentativo di ridefinizione della morte perché era mosso da intenti pratici sin troppo
palesi: rendere leciti i prelievi degli organi a cuore battente, cioè mentre il respiratore è ancora collegato al paziente. Il Comitato di
Harvard aveva confuso il problema teorico della definizione della morte e del suo accertamento, con quello pratico, connesso a cosa fare di pazienti
il cui cervello aveva cessato irreversibilmente di funzionare. Di più esso aveva preteso di risolvere i problemi pratici con una nuova definizione
teorica della morte. Questa in realtà era una pura
"finzione" con la quale si intendeva aggirare l'ostacolo al prelievo a cuore battente,
dichiarando appunto il paziente in coma irreversibile già morto.
Quando
Jonas formulò la sua critica, essa poteva
sembrare una fumosa speculazione, priva di fondamento scientifico. In realtà l'unica obiezione che gli si poteva avanzare è di non aver distinto
lo stato di morte cerebrale dallo stato vegetativo persistente; a sua difesa va peraltro detto che a quell'epoca la distinzione non si era
ancora affermata nella letteratura scientifica. Sarebbe tuttavia sbagliato sostenere che oggi le sue critiche resterebbero ancora valide riguardo
allo stato vegetativo persistente, ma inadeguate riguardo allo stato di morte cerebrale, perché nel primo caso i pazienti sarebbero effettivamente
vivi, mentre nel secondo morti. Per
Jonas sono ancora vivi in entrambi i casi. A ben vedere egli intende contestare non un determinato
criterio di morte cerebrale, ma l'idea che sta alla base di quel criterio in quanto tale, vale a dire che la morte del cervello possa essere
interpretata come la dissoluzione del centro integrativo dell'intero organismo e quindi come la morte di quella individualità corporea nella
sua interezza. Jonas contesta che si possa legittimamente passare - senza soluzione di continuità - dalla diagnosi di morte cerebrale o corticale
che sia alla diagnosi di morte umana. Un paziente in coma irreversibile, dovuto ad un'estesa distruzione del cervello, che respira - con o senza
l'ausilio del respiratore - è comunque ancora vivo. Jonas si oppone ante litteram a quella che
Shewmon, qualche decennio più tardi, chiamerà
la "litania delle funzioni integrative" ed in questo modo precorre l'attuale dibattito sulla validità scientifica di una definizione di morte
espressa in termini neurologici.
Ma Jonas anticipa l'attuale dibattito anche in un altro senso e precisamente ponendosi il seguente
interrogativo:
"la domanda giusta non è "E' morto il paziente?", ma
"che fare di lui", che resta pur sempre un paziente?". Con questa
domanda egli sposta già la discussione dal piano medico-scientifico a quello etico-filosofico, da quello dei fatti a quello dei valori. Ciò che
dobbiamo chiederci di fronte ad un essere umano il cui cervello ha smesso irreversibilmente di funzionare è che cosa siamo moralmente autorizzati a
fare di lui. La decisione da prendere è assiologica e non data da una presunta nuova definizione scientifica della morte.
La conclusione
di
Jonas è ben nota:
quei pazienti non sono ancora morti, ma stanno morendo ed è umanamente giusto lasciarli morire. Quando il
cervello ha smesso di funzionare siamo dunque autorizzati alla sospensione dei trattamenti di sostegno divenuti inutili. I trattamenti vanno sospesi
non perché il paziente sia già morto, ma perché non ha più alcun senso prolungare quel residuo di vita. Ma - e qui è del tutto evidente la
posizione contraria al prelievo degli organi a cuore battente - lo si lasci morire sino in fondo, non arrestando momentaneamente con l'aiuto del
respiratore il processo di morte, in modo da procedere al prelievo dei suoi organi nelle migliori condizioni. Secondo
Jonas bisogna
sospendere la ventilazione e lasciare che
"l'organismo come un tutto" cessi di vivere prima di procedere eventualmente al prelievo
degli organi. A questa posizione
Jonas è rimasto sino all'ultimo fedele, come risulta dalla corrispondenza del 1992 qui pubblicata. Si
possa condividere o meno questa conclusione, sta di fatto che anche a questo riguardo il suo pensiero risulta tutt'altro che antiquato.
Posizioni simili a quelle di Jonas vengono oggi sostenute in campo medico da
Shewmon e la pratica medica del prelievo da donatore a cuore
fermo - come abbiamo già visto - si sta oggi diffondendo (anche se Jonas sarebbe stato ben più prudente riguardo al periodo di attesa dopo
l'arresto cardiaco).
Tra i primi critici della definizione di morte cerebrale va annoverato anche un altro filosofo,
Josef Seifert,
noto nel nostro paese soprattutto per un ampio studio dedicato all'analisi del concetto di persona. Lo sforzo da lui compiuto in quest'opera è di
fondare una
metafisica personalistica, che riconosca alla sostanza personale tutte le caratteristiche della sostanza indicate da Aristotele,
più altre caratteristiche irriducibili a quelle delle sostanze a-personali, prima tra tutte quella di essere un soggetto spirituale. In
tal modo,
Seifert coniuga insieme la metafisica classica e la scoperta della soggettività propria della filosofia moderna.
Sulla
base di questa concezione filosofica egli, già verso la fine degli anni Ottanta, durante la riunione dello
Working Group sulla morte
cerebrale, organizzato dalla
Pontificia Accademia delle Scienze, aveva contestato la pretesa di concepire la morte cerebrale come
equivalente alla morte di fatto di un individuo. E a questa posizione egli è rimasto fedele nel corso degli anni, dedicandovi diversi contributi, tra
cui uno, rimasto sinora inedito, che qui pubblichiamo.
Secondo
Seifert la questione della morte dell'uomo implica domande
squisitamente filosofiche:
Chi è l'uomo? Che cosa è la vita umana? E quali ragioni abbiamo per identificare la cosiddetta morte cerebrale con
la morte dell'essere umano?Egli ritiene che la questione decisiva sulla morte sia filosofica e che pertanto le risposte alle
domande sulla morte umana vadano anzitutto ricercate nella filosofia, e non nella medicina. Il fatto che una persona venga considerata morta
quando il suo cervello è morto non è di per sé una tesi medica, ma una tesi filosofica che affonda le sue radici in un certo modo di concepire la
persona umana. L'equivalenza tra la morte cerebrale e la morte dell'uomo è dunque frutto di una errata concezione della persona, una concezione
riconducibile a diverse dottrine filosofiche, che
a) riducono materialisticamente la persona all'attività di tutto il cervello o
b)
di una parte di esso, la corteccia cerebrale, oppure
c) identificano nel cervello la sede dell'anima, oppure
d) attribuiscono al cervello
un ruolo unico di integrazione delle funzioni biologiche dell'organismo, al punto che la sua distruzione renderebbe l'organismo un puro
conglomerato di organi.
Nel suo saggio Seifert si propone di smontare punto per punto questi quattro argomenti utilizzati solitamente
per identificare la morte cerebrale con la morte di fatto. Le sue critiche potranno apparire ad alcuni poco convincenti, poiché fondate su una
tradizione che considera l'
'essere persona' come una caratteristica ontologica propria di ciascun individuo umano, indipendentemente dal venir meno delle attività cerebrali. Da più parti
oggi in effetti in ambito bioetico si sostiene al contrario una separazione tra la nozione di persona e quella di essere umano; ma anche
senza voler entrare qui nel merito della questione si dovrà pur registrare un fatto di notevole interesse: sia che si accetti una concezione
tradizionale di persona - come Seifert - sia che la si contesti radicalmente - come, tra gli altri,
Singer - l'attuale dibattito
intorno alla morte cerebrale mostra una sorprendente convergenza intorno all'ammissione che individui il cui cervello ha smesso irreversibilmente
di funzionare vadano comunque considerati come esseri umani ancora viventi. Il problema allora non è tanto se quegli individui siano ancora,
o non siano più, persone, quanto piuttosto che cosa siamo autorizzati a fare di loro, sapendo che comunque di fatto non sono ancora
morti.
E' su questo che in realtà oggi si confrontano coloro che - come
Jonas e Seifert - ritengono del tutto illeciti sotto il
profilo morale i
prelievi di organi a cuore battente, perché effettuati su esseri umani ancora vivi, e coloro che - come
Singer
- ma anche altri con diverse motivazioni -, li
ritengono a determinate condizioni leciti, nonostante essi avvengano da esseri umani che non
sono ancora morti. Ma è opportuno sottolineare che da entrambi i fronti - come chiaramente risulta dai saggi di Seifert e di Singer che qui
presentiamo - ci si riferisce ad alcune ricerche medico-scientifiche che nel corso degli anni Novanta hanno progressivamente eroso la credibilità
della nozione di morte cerebrale.
I contributi di
Truog e
Shewmon qui presentati risalgono alla seconda metà degli anni
Novanta, ma già nella prima metà il concetto di morte cerebrale era alquanto vacillante. Prima di tratteggiare la significativa produzione di
questi due autori vorremmo segnalare al lettore l'articolo di
Amir Halevy e
Baruch Brody, rispettivamente un medico ed un
filosofo, inserito nella presente antologia. Già qui viene avanzata la tesi che i test clinici proposti per accertare la morte cerebrale non
assicurano che tutte le funzioni cerebrali siano di fatto cessate e vengono precisamente indicate tre aree di persistente funzionamento: la
regolazione neuro-ormonale, la funzione corticale come mostrato da reperti elettroencefalografici non isoelettrici, alcune funzioni del tronco
cerebrale come mostrato dai potenziali evocati.
Ciò significa che in alcuni casi di
pazienti dichiarati cerebralmente morti persiste
l'attività della ghiandola ipofisi e del centro nervoso (l'ipotalamo) che a controlla. La persistenza del funzionamento è attribuita al fatto
che tali strutture, pur essendo situate all'interno della scatola cranica, ricevono la propria irrorazione sanguigna non dall'arteria carotide
interna né dall'arteria vertebrale, le quali portano il sangue al cervello, bensì da piccoli rami dell'arteria carotide esterna, che irrora
il tessuto del viso e può non essere interessata dal processo che conduce alla morte cerebrale. L'attività dell'ipofisi e dell'ipotalamo è
evidenziata dalla conservazione della secrezione dell'ormone antidiuretico. Nel pazienti in condizioni di morte cerebrale con ipofisi
distrutta si manifesta il cosiddetto diabete insipido, ossia il rene perde la capacità di concentrare le urine ed il paziente elimina anche 10-15
litri di urina al giorno. Ma in un certo numero di pazienti (circa il 20%) ciò non avviene e dimostra che, pur in stato di morte cerebrale, in quei
soggetti permane la funzionalità dell'ipofisi.
La seconda osservazione riguarda l'impiego dell'
elettroencefalogramma. Se si
utilizza l'elettroencefalogramma nei pazienti dichiarati cerebralmente morti in base ai criteri britannici - di tipo soltanto clinico e riferiti
allo stato del tronco cerebrale - è possibile osservare una debole attività elettrica, la quale si spegne dopo 24-48 ore. L'esame evidenzia
dunque che talvolta in alcune zone della corteccia cerebrale permane l'attività elettrica. L'ultima osservazione riguarda un esiguo numero di
casi in cui i pazienti sono dichiarati cerebralmente morti in base ai criteri clinici della morte cerebrale totale e ad esami strumentali, come
l'elettroencefalogramma. La registrazione dei cosiddetti
potenziali evocati uditivi del tronco cerebrale, una prassi non corrente nella
diagnosi di morte, mostra deboli attività elettriche empiricamente rilevabili, anche se destinate a spegnersi entro breve tempo.
(1)Le osservazioni cliniche contenute nella
letteratura medica, oltre a provare che permangono attività residue, e ciò in contrasto alla definizione di morte cerebrale totale che vorrebbe la
cessazione irreversibile di tutte le funzioni cerebrali, provano anche che differenti aspetti del funzionamento cerebrale cessano in momenti diversi.
Gli autori giungono così alla conclusione che ogni netta dicotomia tra la vita e la morte basata sul funzionamento cerebrale è sotto il profilo
biologico insostenibile.
La morte è un processo che si svolge secondo un continuum e la perdita del funzionamento cerebrale non avviene in un
unico punto di tale continuum. Ma se è così, allora invece di concentrasi sulla ricerca di una pressoché impossibile definizione di
morte sulla base di criteri neurologici, dobbiamo stabilire quali comportamenti siano eticamente giustificabili verso soggetti che sono già
entrati nel processo di morte, senza essere di fatto ancora morti.
Come si vede il discorso si sposta dal piano scientifico a
quello etico e gli autori avanzano al riguardo una loro interessante proposta che possiamo così sintetizzare: si può eticamente giustificare
che ad un paziente, il quale abbia irreversibilmente perduto la capacità di coscienza, venga sospesa qualsiasi assistenza utile soltanto a
prolungare la sua vita biologica; se egli ha preventivamente dato il proprio consenso, o lo ha fatto la sua famiglia, può essere sottoposto al
prelievo dei suoi organi, quando siano stati soddisfatti i criteri per l'accertamento della morte cerebrale totale; per destinare il cadavere
all'obitorio occorrerà invece attendere la cessazione dell'attività cardiaca.
Da notare: i prelievi avverrebbero più o meno nella
condizione attuale, di morte cerebrale totale, ma non perché i donatori in quella condizione siano già biologicamente morti, bensì perché in quel
momento del processo di morte si ritiene che il prelievo degli organi sia eticamente sostenibile. Una conclusione molto diversa da quella di Jonas e
di Seifert, la quale tuttavia parte dalla medesima constatazione dell'impossibilità di stabilire una definizione di morte in termini
esclusivamente cerebrali.
Proprio questo aspetto va ora meglio delineato sulla base delle ricerche mediche poc'anzi richiamate di
Shewmon e di
Truog. Si tratta di due autori molto diversi fra loro per formazione culturale, che tuttavia sono giunti nel corso
degli anni Novanta a maturare una posizione estremamente critica nei confronti della morte cerebrale. E' quindi opportuno soffermarsi per un
momento sull'evoluzione del loro pensiero. Già nel 1992
Robert Truog aveva pubblicato (assieme a
James Fackler) un saggio,
Rethinking brain death, in cui con un'ampia documentazione scientifica si dimostrava che i pazienti, i quali rispondono agli attuali
test neurologici per accertare la morte cerebrale, non necessariamente presentano la perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali e ciò
sta ad indicare che la completa cessazione di tali funzioni non sarebbe diagnosticabile sulla base dei test standard adottati.
Il criterio
della morte cerebrale totale non sarebbe dunque coerente con i test utilizzati per accertarla. La tesi non era in realtà completamente
nuova, anche se avvalorata da una consistente mole di studi e ricerche empiriche. Il neurologo inglese
Pallis - come abbiamo già visto -
aveva rilevato che in alcuni pazienti in condizione di morte cerebrale il tracciato elettroencefalografico non è isoelettrico e che pertanto
soltanto la perdita irreversibile delle funzioni del tronco encefalico può essere diagnosticata in modo affidabile.
A sostegno della loro
tesi, Truog e Fackler portano quattro argomenti che si possono riassumere nel modo seguente. In primo luogo, in molti pazienti, giudicati in stato
di 'morte cerebrale' secondo gli esami in uso in uso, non è venuta meno la
funzione endocrino-ipotalamica, segno che l'ipotalamo regola ancora
l'attività ormonale; in secondo luogo, in pazienti che si trovano in tale stato è
conservata l'attività elettrica cerebrale; in terzo luogo,
alcuni pazienti continuano insospettatamente a
reagire agli stimoli ambientali; in quarto luogo, in pazienti definiti cerebralmente morti
sono
conservati i riflessi spinali.
Da ciò gli autori inferivano che gli attuali mezzi clinici accertano soltanto la cessazione
di alcune funzioni dell'encefalo e, di fatto, diagnosticano soltanto la morte corticale. Ma se la situazione è questa, allora si deve smettere di
fare riferimento alla
'morte cerebrale totale' e favorire un mutamento radicale nel modo di concepire la morte dell'uomo accettando la
definizione di morte corticale: questa la conclusione dei due autori.
Nasceva tuttavia un problema:
dichiarare morti soggetti
con danni irreversibili alla corteccia cerebrale comportava che anche i soggetti in stato vegetativo persistente, privi di coscienza, ma con
battito e respirazione autonomi, fossero dichiarati morti. Ciò avrebbe, forse, risolto l'incoerenza formale relativa alla morte cerebrale totale,
ed incrementato il numero dei potenziali donatori di organi, ma chi sarebbe disposto a seppellire individui in quella condizione? Nel loro
saggio
Truog e Fackler rispondevano al quesito sostenendo che la continuazione della respirazione e del battito cardiaco spontanei in
soggetti irrimediabilmente privi di coscienza è insignificante, dal momento che ciò che è rilevante per gli esseri umani, vale a dire la
capacità di coscienza e di interrelazione, è ormai perduto per sempre.
Evidentemente
Truog doveva essersi reso conto delle
difficoltà pratiche generate dalla proposta formulata insieme a
Fackler. Infatti, in un lavoro pubblicato autonomamente nel 1997
(che qui presentiamo in traduzione italiana), egli prendendo le mosse dalle critiche già in precedenza avanzate nei confronti della nozione di
morte cerebrale totale, giunge a prospettare una soluzione molto diversa: non più la sostituzione della morte cerebrale con quella corticale, ma il
ritorno al tradizionale standard cardiorespiratorio.
Beninteso, l'approccio corticale continua - secondo
Truog - ad essere corretto
per
"identificare ciò che è unicamente rilevante per la morte di una persona"; ma ciò che ora si sottolinea è che la morte di un essere
umano è comunque la morte di un organismo e questa non si identifica con nessun criterio esclusivamente cerebrale, tanto meno con quello della
morte corticale. Quest'ultimo criterio fa sorgere più problemi di quanti pretenderebbe di risolvere sostituendosi alla nozione di morte cerebrale
totale.
Anzitutto allo stato attuale delle nostre conoscenze dobbiamo ammettere che risulta impossibile diagnosticare in modo sicuro
l'irreversibilità dello stato vegetativo persistente; in secondo luogo, nonostante siano passati alcuni decenni dall'introduzione della nozione di
morte cerebrale la stragrande maggioranza degli esseri umani continua a percepire la cessazione del battito cardiaco e della respirazione come il
segno incontrovertibile della fine della vita, mentre ritiene controintuitivo considerare morti pazienti che ancora respirano.
Le
incoerenze teoriche generate dalla nozione di morte cerebrale e le difficoltà pratiche originate da quella di morte corticale spingono verso
il ritorno ai tradizionali criteri cardiopolmonari: ad essi Truog propone nuovamente di fare affidamento per la diagnosi di morte di ciascun essere
umano. Ciò che dunque viene proposto è una vera e propria inversione di marcia. Ma, attenzione, questo non implica necessariamente la fine dei
trapianti. Abbandonare la morte cerebrale non significa sospendere i trapianti, ma trovare per essi una diversa giustificazione da quella sino
ad oggi offerta da una nozione di morte cerebrale sempre più traballante. Ed è proprio con un richiamo alla necessità di dare un fondamento etico ai
trapianti che si conclude il saggio qui presentato.
Va peraltro segnalato che
Truog, più recentemente è tornato sull'argomento,
affermando che non ci si deve più chiedere se un certo paziente con un esteso danno cerebrale irreversibile è morto, ma se l'intervento di
prelievo dei suoi organi può procurargli un danno: se non è questo il caso (poiché, ad esempio, è totalmente e irreversibilmente privo di coscienza)
ed ha preventivamente espresso il proprio consenso alla donazione, allora il prelievo degli organi è moralmente lecito. Il reperimento degli organi
dovrebbe dunque essere guidato dai principi etici dell'autonomia e della
non-maleficenza (non-maleficence).
L'adozione di tali
principi eviterebbe le problematiche delle incoerenze fra definizione, criterio e test per accertare il decesso e consentirebbe di superare il
divieto di prelevare organi da pazienti che non si trovino in condizioni cliniche di morte cerebrale totale. Insomma, per accertare la morte non
resta che ritornare al tradizionale standard cardiorespiratorio, per rendere leciti i prelievi è tuttavia sufficiente che essi avvengano nel
rispetto di alcuni principi etici, ma anche prima che si verifichi la morte di fatto del paziente (non solo quella cardiorespiratoria, ma
persino quella dell'intero cervello).
A conclusioni diverse, ma percorrendo un cammino per certi versi simile, giunge
Shewmon.
Durante gli anni Ottanta
Shewmon era stato un convinto sostenitore della validità scientifica della morte cerebrale. Chiamato a fare parte
dello
Working Group sulla morte cerebrale, promosso nel 1989 dalla Pontificia Accademia delle Scienze, Shewmon - a differenza di Seifert che
nella medesima occasione già si era fermamente opposto - aveva difeso la validità scientifica e l'attendibilità dei criteri e dei test impiegati
per accertare la morte dell'intero encefalo
(whole brain death), nella convinzione che fosse corretta l'equazione tra morte cerebrale e
morte del paziente, mentre invece criticava sia la validità dell'equazione tra morte del tronco encefalico e morte dell'organismo sia quella tra
morte corticale e morte della persona. Una equazione quest'ultima di cui egli era persino giunto a sostenere la correttezza sotto il profilo filosofico.
Alla metà degli anni Novanta
Shewmon ha tuttavia
mutato completamente le proprie convinzioni, come bene viene documentato dal saggio qui tradotto. Ad un tale cambiamento ha contribuito soprattutto
la sua diretta esperienza clinica, l'osservazione di alcuni soggetti, diagnosticati in stato di morte cerebrale, vissuti, sia pure privi di
coscienza, per settimane o mesi, e in qualche caso addirittura per anni. Organismi dichiarati in stato di morte cerebrale sopravvivono molto più a
lungo di quanto si potesse immaginare, e ciò implica che il cervello non è così essenziale, come invece si riteneva, per il funzionamento integrato
dell'organismo. Ma se la morte del cervello non è più un indicatore della morte ravvicinata di tutto l'organismo ciò significa che viene a cadere il
presupposto fisiologico su cui si reggeva la morte cerebrale, vale a dire che un corpo cerebralmente morto non fosse comunque in grado di mantenere
se non per poco tempo funzioni cardiovascolari stabili.
Sulla base di queste considerazioni
Shewmon è giunto a contestare radicalmente
l'idea, ancora molto diffusa, che il cervello rappresenti l'organo responsabile del funzionamento integrato delle diverse parti di un
organismo e che, come tale, ne costituisca il
"sistema critico". In realtà il corpo in quanto tale non possiede un sistema di questo genere
localizzato in un organo. L'unità integrativa di un organismo non è qualcosa di imposto dall'alto (dal cervello) ma un fenomeno olistico
fondato sulla mutua interazione di tutte le parti del corpo.
Su queste basi
Shewmon è giunto ad elaborare un modo di concepire la
morte che conferma l'idea che essa sia la perdita dell'unità integrativa del corpo, ma fa dipendere una tale unità non più da un organo sia pure
importante come il cervello, bensì dal corpo nella sua interezza, e consiste nel raggiungimento di un 'punto di non ritorno', nel quale la
tendenza intrinseca del corpo al suo autosviluppo, della vita alla sua conservazione è irrimediabilmente perduta. Quando si è raggiunto questo
punto, accertabile clinicamente con la cessazione protratta della circolazione sanguigna per 20-30 minuti circa, risulta inefficace
qualsiasi intervento medico finalizzato a scongiurare l'exitus. Ciò che dunque si prospetta è una definizione di morte circolatorio-respiratoria
che quand'anche - come sostiene Shewmon - non è esattamente quella tradizionale cardiopolmonare, gli è per lo meno in pratica molto
vicino.
Anche questo nuovo modo di procedere all'accertamento del decesso non comporterebbe di per sé un arresto dell'attività dei
trapianti, ma introdurrebbe un importante cambiamento di criteri e test per determinare la morte e quindi procedere all'eventuale prelievo, che
avverrebbe non più a cuore battente, bensì a cuore fermo. Questa proposta - come lo stesso
Shewmon ammette in apertura del contributo qui
presentato - ricorda le procedure di prelievo dai cosiddetti
non-heart-beating-cadaver-donors previsti dal già citato
protocollo
di Pittsburgh (cfr. supra, § 2). Secondo tale protocollo è possibile il prelievo degli organi da un soggetto dichiarato morto mediante i
tradizionali criteri cardiopolmonari, dopo che questi o la sua famiglia abbia deciso di sospendere i trattamenti di sostegno vitale.
La
distinzione sembrerebbe nel tempo di attesa prima di procedere alla dichiarazione di morte e al conseguente prelievo: due minuti di cessazione
del battito cardiaco sarebbero - secondo il protocollo di Pittsburgh - sufficienti; ma
Shewmon è ben consapevole del fatto che si tratti
di un periodo troppo breve per dichiarare morto un paziente, per questo propende per un lasso di tempo maggiore: 20-30 minuti. Tuttavia il suo
contributo dà origine ad una perplessità, poiché non è chiarito se questo periodo di attesa, probabilmente sufficiente per raggiungere il sicuro
punto di non ritorno, sia anche quello ritenuto indispensabile prima di iniziare il prelievo degli organi. Se così fosse Shewmon giungerebbe
esattamente alla stessa conclusione di Jonas, il quale nella lettera del 1992, ripresa qui di seguito, propone esplicitamente di aspettare 20-30
minuti prima di procedere al prelievo degli organi.
Resta però da vedere se dopo questo periodo gli organi sarebbero ancora effettivamente
utilizzabili. Forse si potrebbe trovare una soluzione intermedia tra i due minuti (troppo pochi) e i 20-30 minuti (probabilmente troppi, per lo meno
per alcuni organi): in questo senso potrebbero essere significative le esperienze dei centri europei di trapianto che hanno adottato un tempo di
attesa di 10 minuti. Mentre queste proposte di prelievo a cuore fermo (sulle quali ci siamo già soffermati) non sono pensate in alternativa al
prelievo a cuore battente, bensì vorrebbero indicare una tecnica complementare, utile ad aumentare la disponibilità di organi, Shewmon
considera questa tecnica come un cambiamento del modus operandi per ottenere organi da trapiantare, un cambiamento deriva dalla sua propria
radicale messa in discussione della 'morte cerebrale'.
I lavori di
Shewmon, assieme a quelli di
Truog, stanno alla base della
posizione attualmente assunta da
Peter Singer: un autore ben noto anche nel nostro paese, ma di cui solo di recente è stata ricostruita
l'evoluzione del pensiero sul tema della morte cerebrale.
In questa sede basti ricordare che anche
Singer era partito da una posizione
tutt'altro che critica nei confronti della morte cerebrale: alla fine degli anni Ottanta una tale definizione di morte era anche per lui, tutto
sommato, difendibile sotto il profilo scientifico. Nel corso degli anni Novanta egli ha tuttavia assunto un atteggiamento critico nei confronti
dell'attendibilità scientifica della definizione di morte cerebrale già esplicitata nel suo libro Rethinking Life & Death del 1994: la
definizione di Harvard ha consentito di trovare una soluzione ai problemi generati dal sovraffollamento delle unità di rianimazione e dal bisogno di
organi per il trapianto
"nondimeno era viziata fin dall'inizio. La prassi di risolvere i problemi ricorrendo a delle ridefinizioni raramente
funziona, e questo caso non faceva eccezione alla regola".
Insomma, per risolvere alcuni problemi concreti il Comitato di
Harvard ha escogitato un
" ardito espediente"quello di definire morti esseri umani che non lo sono affatto. E' quanto tra l'altro risulta
dalle nuove conoscenze concernenti la funzione del cervello in pazienti 'cerebralmente morti':
Singer prende atto e giunge a concludere,
proprio nel saggio che qui presentiamo, che la morte cerebrale non è nient'altro che una "finzione". A questo punto egli potrebbe tuttavia
considerarla una finzione molto utile ed anzi proporre di estenderla ulteriormente, identificando la morte con la perdita irreversibile della
coscienza. Un essere umano sarebbe morto quando la sua coscienza è irrimediabilmente perduta e poco importa se il suo corpo è ancora
effettivamente vivo. Ma Singer non imbocca questa strada ed anzi conclude le sue riflessioni rifiutando qualsiasi criterio di morte basato
esclusivamente sul cervello e accettando esplicitamente la concezione tradizionale della morte.
Se da questo punto di vista egli dunque
fa un passo indietro, allineandosi al riguardo alla posizione di
Shewmon,egli d'altro canto ne respinge radicalmente le
conclusioni etiche. Gli esiti pratici della sua proposta infatti non differiscono da quelli di coloro che attualmente sostengono una
definizione corticale della morte. Per Singer è infatti moralmente accettabile sospendere ogni sostegno vitale e rimuovere gli organi (in
presenza di consenso dell'interessato) quando la coscienza è irreversibilmente persa; ma questa scelta è frutto di una consapevole
decisione etica e non di una presunta definizione di morte cerebrale parziale o totale che sia).
Una tale definizione si sta
visibilmente sgretolando, tutti gli appigli scientifici su cui si reggeva sono venuti meno, ma questo non significa che si debbano sospendere i
trapianti: bisogna soltanto riconoscere che i prelievi avvengono quando il paziente è ancora vivo. La fine dell'ideologia della morte cerebrale
consentirebbe così di alzare la posta in gioco, mostrando la crisi della tesi tradizionale della sacralità della vita. Non sempre è sbagliato porre
intenzionalmente fine alla vita di un essere umano e proprio i prelievi a cuore battente ne rappresenterebbero la prova più efficace. Così Singer
sposta l'attenzione dalla crisi della definizione di morte cerebrale alla crisi della morale tradizionale fondata sulla proibizione sociale
dell'uccisione intenzionale.
Le sue conclusioni - ovviamente - possono essere contestate ed il primo a farlo è stato un illustre filosofo
del diritto, esponente di spicco del giusnaturalismo contemporaneo:
John M. Finnis. E' certo che Singer deve aver tenuto conto nella
redazione definitiva del suo contributo (qui ripubblicato) di molte delle critiche mossegli da Finnis: per questa ragione allo stato attuale alcuni
suoi rilievi non trovano più piena corrispondenza nell'intervento di Singer. Abbiamo tuttavia voluto pubblicare questo scritto di Finnis,
rimasto sino ad oggi inedito, perché documenta anzitutto come questo filosofo del diritto, vicino alle posizioni di
Grisez e Boyle (non
a caso difese dalle critiche di Singer), non può fare a meno di ammettere che almeno su un punto il filosofo australiano ha effettivamente ragione:
ci sono oggi seri problemi nell'accettare la morte cerebrale come criterio di morte.
Ma
Finnis ci pare richiamare l'attenzione anche su
un altro aspetto che Singer invece trascura. Per quest'ultimo quando la coscienza è irreversibilmente perduta, anche se il paziente è comunque
ancora vivo, si possono sospendere i trattamenti di sostegno e procedere al prelievo degli organi. Il problema che Singer tuttavia non affronta è
se esistano criteri clinicamente affidabili che ci consentano di stabilire quando la coscienza è irreversibilmente persa. Singer mostra molto bene
l'inconsistenza scientifica della morte cerebrale ma non dice nulla sul modo in cui si possa accertare l'irreversibile perdita della coscienza.
Anche se il paziente è ancora vivo dovremmo essere sicuri che, quando si procede al prelievo, almeno la coscienza sia irreversibilmente persa, ma
chi ci garantisce che in qualche caso di stato vegetativo persistente si possa avere ancora un certo grado di coscienza? Qui Finnis, a ragione,
richiama l'attenzione su un aspetto sottolineato dalle ricerche di Shewmon, di cui Singer non tiene conto: in qualche caso si può avere
coscienza persino senza corteccia cerebrale.
Finnis tuttavia non sviluppa questa critica e conclude il suo intervento tentando di difendere
quella che Singer chiama
"sacralità della vita"e che Finnis preferisce definire
"etica dell'eguaglianza nel diritto alla
vita".Questa critica tuttavia in ultima istanza non fa altro che riaffermare il cosiddetto
"principio del duplice effetto",con la
distinzione tra uccidere intenzionalmente - sempre illecito - e causare la morte come effetto secondario di azioni aventi lo scopo di alleviare il
dolore (eticamente ammesso). Ma se questa distinzione può avere ancora un senso con riferimento alla questione di un paziente inguaribile, nello
stadio terminale, ci sembra difficile applicarlo a pazienti in coma irreversibile il cui cervello, in parte o in tutto, ha smesso di
funzionare. Che senso ha in questo caso di parlare di "eguaglianza nel diritto alla vita", quando è proprio la vita che se ne sta andando per
sempre?
Può essere opportuno a questo punto segnalare un altro approccio, quello di un giovane filosofo tedesco che ha dedicato un ampio
lavoro al tema della morte cerebrale e che nel contributo che qui presentiamo ha voluto riassumere nelle sue linee fondamentali il proprio
pensiero. E' significativo che l'autore sia un tedesco, perché in Germania (a differenza di quanto accaduto nel nostro paese) la legislazione sui
trapianti è stata accompagnata da una discussione pubblica sulla morte cerebrale ed è ragguardevole - come Stoecker, ma anche Singer sottolineano
- che quella legislazione (a differenza della nostra) non contenga una definizione della morte: la legge tedesca, entrata in vigore nel dicembre
1997, non dice quando un essere umano è morto, anche se subordina il prelievo degli organi al momento dell'accertamento della morte cerebrale
totale.
Stoecker fornisce una spiegazione delle motivazioni che hanno indotto ad introdurre la nozione di morte cerebrale. Con tale
definizione si è preteso di aggirare l'ostacolo di fondo rappresentato dal problema etico di cosa fare di pazienti in coma irreversibile definendoli
di fatto morti. E si è giunti a questa conclusione perché la morte segna un confine etico e giuridico prima del quale l'essere umano ha diritto ad
essere trattato in un certo modo e oltrepassato il quale può essere trattato diversamente. E' sulla base di questa
"assunzione etica
fondamentale"che si è giunti a formulare la definizione di morte cerebrale. Definire morti i pazienti in coma irreversibile consentiva di
trattarli come cadaveri e non più come pazienti. Se per Singer occorre abbandonare il principio tradizionale della sacralità della vita per
Stoecker occorre abbandonare questa assunzione etica fondamentale, e possiamo farlo se cominciamo ad ammettere che un essere umano alla fine
della sua vita è soggetto ad una molteplicità di perdite che diminuiscono i nostri doveri nei suoi confronti, anche senza far venire meno il suo
status morale.
Senza dubbio un individuo in stato di morte cerebrale si trova in una situazione molto diversa da quella in cui si
trova qualsiasi altro essere umano. Non ha senso, ad esempio, porsi nei suoi confronti il problema di non procurargli dolore, perché non è più in
grado di provare dolore e tuttavia noi abbiamo ancora obblighi nei suoi confronti perché resta comunque un essere umano, e la tutela della dignità
umana si estende anche a lui. Ciò che allora conta non è il fatto se gli esseri umani cerebralmente morti siano già morti o meno, ma chiarire che
cosa significhi trattarli dignitosamente in considerazione della loro eccezionale situazione. Così anche Stoecker giunge alla conclusione che
per una ben fondata legge sui trapianti non serve tanto stabilire il momento della morte, quando elaborare un'adeguata etica per il trapianto
di organi.
Pur muovendo da prospettive e competenze diverse tutti gli autori che abbiamo preso in esame mirano ad un superamento della
definizione della morte cerebrale, ripensando in senso etico i problemi che con quella definizione si era preteso di risolvere. In un primo
momento avevamo pensato di non inserire nella nostra antologia neppure un autore italiano; proprio per dare anche così, indirettamente, il segno di
una situazione cristallizzata intorno alla supina accettazione di una definizione intorno alla quale - come si è visto - a livello
internazionale, il consenso viene sempre più incrinandosi, tanto in ambito etico-filosofico, quanto in quello medico-scientifico. Poi però ci siamo
decisi di coinvolgere un neurologo italiano,
Carlo Alberto Defanti, che da molti anni si occupa del tema e che ad esso ha pure dedicato uno
dei pochi studi monografici apparsi nel nostro paese, per sondare la sua attuale posizione. Ne è nato un contributo originalissimo, che oltre a
tracciare una breve storia del problema della morte cerebrale, con i suoi successi pratici, ma anche - sin dall'inizio - con le sue difficoltà, ci
mostra il percorso da lui stesso seguito. Sono pagine altamente significative perché Defanti ha il coraggio e l'onestà intellettuale
(qualità ormai rarissime nel nostro paese) di fare autocritica; così proprio lui che in Italia era stato tra i più convinti assertori del
concetto di morte cerebrale, oggi afferma di prendere in seria considerazione l'obiezione fondamentale da cui era partito Jonas, vale a
dire quella che insiste sull'indeterminatezza del confine tra la vita e la morte.
Così il cerchio si chiude ritornando proprio a quell'autore,
Hans Jonas, che per primo aveva osato opporsi alla definizione della morte cerebrale. E il medico conclude che il filosofo aveva ragione
a non voler ridefinire la morte e ad affrontare i problemi etici sollevati dagli individui cerebralmente morti. Al problema etico sollevato dai
prelievi a cuore battente Defanti risponde oggi riaffermando - come già di recente aveva fatto
Becchi - la proposta del Comitato danese di
etica, secondo la quale la cessazione irreversibile delle funzioni cerebrali non identifica la morte, ma l'inizio irreversibile del processo
del morire e che come tale - previo esplicito consenso del paziente - può essere considerata una premessa sufficiente per il prelievo degli organi.
Considerata l'importanza che questo documento ha, abbiamo deciso di tradurlo e di presentarlo in Appendice di questa antologia. Anche se il
legislatore danese alla fine ha deciso di non tenerne conto - allineandosi alle scelte degli altri paese europei - quel documento è destinato a
ritornare d'attualità nel momento in cui la 'morte cerebrale' è entrata - questa sì - nella sua crisi irreversibile.
1 La spiegazione dei
fenomeni neurologici ora descritti è stata cortesemente fornita dal Prof. Carlo Alberto Defanti e dal Dr. Alberto Gottlieb.
Torna alla pagina precedente