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Nell'aprile del 1999 è entrata in vigore, dopo un lungo e complesso iter
parlamentare, una nuova legge sui trapianti (la legge n. 91). Essa prevede
altresì - proprio con riguardo all'aspetto che maggiormente la
caratterizza, vale a dire quello concernente la dichiarazione di volontà
in ordine alla donazione - una fase transitoria dalla quale in realtà non
solo non siamo ancora usciti, ma che anzi con il passare del tempo ha
assunto sempre più una sua propria fisionomia, finendo quasi de facto per
sostituirsi alla legge medesima.
Vorrei articolare questa mia
conversazione in tre punti.
Anzitutto intendo richiamare l'attenzione
sulla novità introdotta dalla recente legge; mi concentrerò poi sul modo
in cui, in conformità ad essa, si sarebbe dovuto provvedere ad informare
l'intera cittadinanza e come ciò sia concretamente avvenuto. Cercherò,
infine, di illustrare le caratteristiche della fase transitoria che è
quella - a tre anni di distanza dalla promulgazione della legge - tuttora
vigente.
1 - Tra gli aspetti più innovativi della recente
legge sui trapianti vi è sicuramente l'introduzione del silenzio-assenso
per quel che attiene la dichiarazione di volontà in ordine alla donazione
degli organi. Un tale criterio va a sostituire quello previsto dalla legge
precedente sui trapianti (del 1975), che si basava sul consenso presunto,
combinato tuttavia con la facoltà di opposizione dei più prossimi
congiunti.
L'adozione del nuovo criterio comporterà che il cittadino,
il quale debitamente informato della necessità di esprimersi riguardo alla
donazione post rnortem dei suoi organi (tramite comunicazione a lui
notificata a cura dell'Azienda sanitaria locale competente per il
territorio) non abbia espresso la propria posizione (né di assenso, né di
dissenso) entro novanta giorni dall'anzidetta notifica, sarà
automaticamente considerato donatore (artt. 4 e 5).
Anche se
allo stato attuale la questione può apparire squisitamente teorica, dal
momento che sino ad oggi nessuno ha ricevuto la notifica, vale la pena
avanzare qualche riserva sul criterio adottato dal
legislatore.
Cominciamo da una osservazione di natura generale. Il
meccanismo del silenzio-assenso è tutt'altro che estraneo all'esperienza
giuridica: lo si ritrova tanto nel codice civile quanto nella pubblica
amministrazione. Nel primo caso è comunque evidente che le conseguenze del
silenzio vadano a favore di colui che tace: ciò che si persegue
automaticamente è il suo vantaggio. Con riferimento ai trapianti, invece,
ad essere beneficiato non è il soggetto stesso, ma terzi a lui estranei.
Nel secondo caso esso risponde a precise esigenze acceleratorie dei
procedimenti cui viene applicato. Ben altro valore ha tuttavia il
presumere la volontà amministrativa di un ente (la P.A.), in modo
da avviare alla sua ben nota inerzia, e il presumere la volontà di una
persona sul proprio corpo. Insomma, la trasposizione del criterio del
silenzio-assenso alla donazione degli organi non trova corrispondenza né
nelle esigenze di tempestività operativa per cui è stato introdotto nella
pubblica amministrazione, né nei casi esplicitamente previsti dal codice
civile.
Nondimeno resta da chiedersi perché esso non possa pure essere
esteso alla donazione degli organi. Il motivo per cui è stato introdotto
anche in questa materia è evidente: si è pensato di ovviare alla scarsità
di organi disponibili. Ammesso (ma non concesso) che si possa raggiungere
l'obiettivo sperato dobbiamo chiederci se sia eticamente e giuridicamente
lecito raggiungerlo in tal modo.
Vorrei qui avanzare due obiezioni di
principio: la prima riguarda la completa esautorazione della famiglia
rispetto al destino dei cadaveri dei propri congiunti; la seconda la
legittimità etica e giuridica del silenzio-assenso in quanto tale (nella
fattispecie a cui è stato recentemente applicato). Consideriamo anzitutto
il primo aspetto. Un cadavere (non discuto qui se il criterio della morte
cerebrale totale sia sufficiente a definire morta una persona perché
l'argomento richiederebbe una trattazione apposita) è il corpo di un uomo
ormai privo di vita, che in un certo lasso di tempo andrà in putrefazione:
anche se sicuramente quel corpo privo di vita non è più una persona, è
comunque la spoglia mortale di quella determinata persona e non di
un'altra. Per questa ragione credo che persino la salma in sé, in quanto
resta pur sempre la proiezione oltre la vita della persona che è stata,
abbia diritto ad un atteggiamento di rispetto. Quello che voglio dire è
che non solo le persone, ma anche i cadaveri hanno una loro
dignità.
Non intendo tuttavia insistere in questa sede su questo punto.
Anche qualora non volessimo spingerci a tanto, dovremmo perlomeno
ammettere che un atteggiamento di rispetto verso la salma sia deducibile
dal valore affettivo di cui è portatrice. Il rispetto nei confronti del
cadavere scaturisce dal ricordo che esso porta con sé di ciò che è stato
vivo. Ma questo ricordo non è del defunto che essendo morto, ovviamente,
non può ricordare nulla; bensì anzitutto di coloro che hanno condiviso con
lui la sua vita e ora sentono la sua mancanza. Il morto è oggetto della
memoria dei suoi famigliari ed è circondato dal loro affetto e dalla loro
pietà. Con lui in fondo se ne va anche una parte di loro.
A questa
riflessione prettamente etica vorrei aggiungerne una giuridica: questo
sentimento di pietà verso i defunti trova una propria tutela penalistica
in alcuni articoli del codice (artt. 407 e ss.) espressamente
dedicati ai "delitti contro la pietà dei defunti". Si potrebbe
replicare che tali articoli hanno perso di importanza in una società
sempre più secolarizzata, e magari sottolineare che non è compito del
diritto tutelare tali sentimenti. Al riguardo bisogna tuttavia osservare
che nel modo di trattare i morti onorandone la memoria e facendosi
interpreti delle loro ultime volontà entra in gioco qualcosa che gli
uomini (da vivi) sentono il bisogno di doversi reciprocamente riconoscere:
il fatto di essere certi che saranno trattati nel rispetto della loro
identità anche quando non ci saranno più.
Beninteso, non intendo
affatto sostenere che il trapianto di organi di per sé sia lesivo della
pietà dei defunti, o di questo sentimento di autostima che ciascuno ha, ma
è certo che se esso viene effettuato (come nel caso previsto dalla legge)
senza alcun riconoscimento del coinvolgimento sentimentale dei famigliari
viola non solo il loro diritto ad una adeguata elaborazione del lutto, ma
anche quello a farsi interpreti della volontà del defunto, qualora questi
non l'abbia manifestata.
Ma - a prescindere dai famigliari - non si
violano anche i diritti del defunto nel momento in cui si prelevano i suoi
organi senza un suo esplicito consenso? Passo così a considerare la
seconda obiezione. Sotto il profilo etico viene subito da chiedersi che
tipo di donazione sia quella che viene compiuta senza neppure sapere di
compierla. L'ultimo grande tabù collettivo, la morte e il morto, poteva
essere rimosso soltanto compensando l'atto della violenza estrema sul
corpo con il gesto più puro: quello del dono. L'etica del dono fa leva sui
sentimenti più nobili e disinteressati dell'animo umano, ma come può
conciliarsi con una asettica presunzione di legge? In linea di principio
ci viene richiesto di compiere una scelta consapevole come è quella di
donare gli organi, di fatto ci si accontenta di un silenzio che tutto può
esprimere tranne che la consapevolezza ditale scelta.
Due sono gli
aspetti che mi paiono più problematici. Non possono qui che
accennarvi.
(a)- Sino a poco tempo fa l'etica e il diritto
moderni si sono occupati prevalentemente della condizione umana tra due
estremi ben definiti: la nascita e la morte. Gli enormi sviluppi
tecnologici e scientifici applicati alla medicina tuttavia ci hanno posto
(e lo faranno sempre più) di fronte ad una situazione radicalmente nuova:
procreazione artificiale (all'inizio) e prolungamento artificiale (alla
fine) non possono non richiamare l'attenzione sulla tutela della persona
sia prima della sua nascita che dopo quella che oggi, per legge, viene
ritenuta la sua morte. E come esiste una tutela della vita prenatale (per
quanto in stretta relazione agli interessi della madre e comunque con dei
limiti legali per l'interruzione della gravidanza) non si vede perché non
potrebbe pure esistere una tutela della "vita" - mi si conceda il
paradosso - postmortale (magari anche in relazione ai sentimenti dei
congiunti). Ad una personalità in via di sviluppo nel nascituro
corrisponderebbe in tal modo una personalità in via di estinzione nel
defunto. L'alone di protezione che l'etica e il diritto moderni hanno
garantito alla persona dovrebbe così estendersi a tutelarla tanto al di
qua della nascita quanto, almeno per un certo tempo, al di là della
morte.
Tutto ciò non intende affatto mettere in discussione la liceità
dei trapianti, ma soltanto sottolineare che i cadaveri non sono puramente
e semplicemente cose con le quali si può fare quel che si vuole (da questo
punto di vista è significativo che venga penalmente punita ogni forma di
commercializzazione del cadavere). Una scelta libera e responsabile di
donare gli organi post mortem e sicuramente di alto valore morale, ma
quando si vuole perseguire tale obiettivo aggirando l'ostacolo della
decisione personale è proprio come se quell'alone di protezione
scomparisse.
(b)- Queste considerazioni possono sembrare
troppo filosofiche: benché io non creda che sia così vorrei offrirvi un
secondo spunto di riflessione che attiene più propriamente la sfera
giuridica. Mi chiedo: non lede, forse, il criterio del silenzio-assenso un
diritto fondamentale dei cittadini, e cioè la libertà di opinione? A prima
vista si può rimanere sconcertati rispetto a questo interrogativo: la
legge infatti riconosce il diritto a manifestare una opinione dissenziente
rispetto al prelievo, non si vede quindi come possa ledere quel diritto.
La legge tuttavia considera, con il silenzio-assenso, la mancata
opposizione al prelievo equivalente alla donazione. Ora, il fatto che un
soggetto non si sia espresso in un modo o nell'altro non comporta
necessariamente che sia favorevole. Quando il silenzio viene equiparato
all'assenso, ciò che viene leso è proprio il diritto a che il silenzio
venga considerato per quello che è: un modo di esprimere la propria
opinione permanendo nel dubbio.
Su una questione così personale e
delicata dovrebbe essere rispettata la non-scelta di chi indeciso, permane
nel dubbio. Stabilire invece a suo carico una decisione che egli non si è
sentito di prendere potrebbe configurarsi come una indebita interferenza
nella sua sfera privata. Il bene della società non può soverchiare il
diritto al rispetto del silenzio dell'individuo. La solidarietà è certo
lodevole, il dare più nobile del prendere, ma quando non è più volontaria,
bensì sembra quasi carpita con l'inganno, allora dobbiamo seriamente
chiederci se in questo modo essa medesima non venga snaturata.
Coloro
che si richiamano alla nostra Costituzione per sottolineare i doveri di
solidarietà a cui in essa si fa riferimento (art. 2) dimenticano
che il suo spirito verrebbe completamente stravolto se tra tali doveri si
dovesse anche includere quello di donare ciò che è più proprio di noi
stessi, vale a dire il nostro corpo. La costituzione, che è anche un mezzo
di difesa del cittadino contro lo Stato, si trasformerebbe pericolosamente
in uno strumento che può essere utilizzato contro (la parte più intima) di
lui. Il senso di una costituzione liberale, tipica di uno Stato di
diritto, verrebbe a modificarsi sostanzialmente e forte sarebbe il rischio
di uno scivolamento in senso autoritario-paternalistico.
Tiriamo una
prima conclusione: in quella che è stata definita l"'età dei diritti"
si pretende con il silenzio-assenso di introdurre un nuovo
elemento di doverosità all' interno dell'ordinamento statale, togliendo
spazio vitale al dubbio su un problema che riguarda la sfera più intima e
privata di noi tutti. In un'epoca in cui inoltre assistiamo ad un ritorno
dei valori della famiglia la nuova legge sul prelievo di organi da
cadavere la esautora del tutto in un ambito in cui è direttamente
coinvolta. Era proprio necessario imboccare questa
strada?
2- Bisogna tuttavia a questo punto precisare un
aspetto che almeno nel testo della legge acquista un notevole rilievo.
Eliminando la possibilità dell'opposizione dei congiunti, e mantenendo al
contempo un sistema in cui non è indispensabile l'espresso consenso
dell'interessato, il legislatore ha sentito la necessità di introdurre a
garanzia del cittadino un elemento di controbilanciamento. L'equiparazione
del silenzio all'assenso doveva, come dire, essere legittimato da un'ampia
e al contempo capillare opera di sensibilizzazione tale da consentire
effettivamente a ciascun cittadino di compiere una scelta consapevole:
informarsi per scegliere, ma anche eventualmente per acconsentire tacendo.
Quest'ultima conclusione solleva subito qualche perplessità anche con
specifico riguardo al problema dell'informazione.
Nell'ambito del
trattamento sanitario, come è noto, ha sempre più acquisito rilievo il
cosiddetto "consenso informato". Questo comporta che il paziente sia
direttamente coinvolto nelle scelte che lo riguardano: è ormai un suo
acquisito diritto, quando ciò non costituisca un pericolo per la
collettività, quello di consentire o dissentire dalle cure mediche. In
questo senso tuttavia il consenso riguarda scelte che devono essere prese
nel presente e non nel futuro. Orbene, il consenso al prelievo post mortem
apre, a livello di diritto positivo, una nuova prospettiva: quella, che
nel linguaggio tecnico viene usualmente definita, delle "direttive
anticipate"; ma lo fa in un modo che lascia alquanto perplessi: al posto
del consenso informato ci presenta il silenzio informato. Insomma, per
farmi togliere un dente c'è bisogno del mio esplicito consenso, per
prelevarmi polmoni, reni, cuore e quant'altro è sufficiente il mio
silenzio. Certo, nel primo caso io sono vivo, nel secondo è stata
accertata la morte cerebrale, e tuttavia - si dovrà pure ammetterlo - la
soluzione del silenzio (equiparabile all'assenso) stride in un contesto
complessivo in cui il consenso informato è diventato sempre più
l'autentico protagonista.
Ma vediamo un po' più da vicino cosa prevede
la legge riguardo all'informazione. Essa affida al Ministero della Sanità
il compito di promuovere «nel rispetto di una libera e consapevole scelta,
iniziative di informazione dirette a diffondere tra i
cittadini:
a) la conoscenza delle disposizioni della presente
legge [...];
b) la conoscenza di stili di vita utili à prevenire
l'insorgenza di patologie che possano richiedere come terapia anche il
trapianto di organi;
c) la conoscenza delle possibilità
terapeutiche e delle problematiche scientifiche collegate al trapianto di
organi e tessuti» (art. 2, comma 10).
Dal canto loro le Regioni e le
Aziende Sanitarie Locali sono chiamate ad adottare iniziative volte
a:
“a) diffondere tra i medici [...] la conoscenza delle
disposizioni della presente legge [...];
b) diffondere tra i
cittadini una corretta informazione sui trapianti [...];
c)
promuovere sul territorio di competenza l'educazione sanitaria e la
crescita culturale in materia di prevenzione primaria, di terapie
tradizionali e alternative ai trapianti» (art. 2, comma
2°).
Il comma 3° dello stesso articolo autorizza altresì una
pesa complessiva di due miliardi di lire annui per l'attuazione di questo
vasto programma di informazione.
L'idea che guida il legislatore è
dunque quella di offrire, tramite diverse istituzioni - centrali e locali
- la massima diffusione alla legge in oggetto. E' significativo che si
insista sulla necessità di portare a conoscenza dei cittadini non solo la
legge, ma altresì le problematiche scientifiche connesse ai trapianti e
che si faccia anche riferimento a finalità preventive. Va ribadito come la
prevista campagna informativa non si configuri come una mera opportunità,
bensì come un atto dovuto.
Passiamo ora ad analizzare concretamente
come è stata effettuata tale opera di informazione. Dall'entrata in vigore
della legge qualcosa a livello nazionale ha cominciato a muoversi nel
maggio del 2000 quando una buona parte di italiani si è vista recapitare,
assieme ai certificati elettorali per i referendum del 21 maggio, anche
una bustina del Ministro della Sanità contenente un tesserino per la
donazione degli organi.
L'attività a livello regionale andrebbe
sottoposta ad una valutazione differenziata e qui debbo riconoscere che la
Regione Piemonte è stata la prima e tuttora una delle poche a realizzare
un opuscoletto, in formato tascabile, funzionale a presentare con un
linguaggio accessibile le problematiche dei trapianti12. Di specifiche
attività intraprese dalle Aziende (Unità) Sanitarie Locali non sono invece
a conoscenza.
Concentriamo pertanto la nostra attenzione sulla bustina
del Ministro. Intitolata «Una scelta consapevole» è aperta da un breve
messaggio in cui l'ex-Ministro della Sanità, Rosy Bindi, invita ciascun
cittadino ad esprimersi in merito alla propria disponibilità a donare e a
tal fine include l'apposito tesserino. Alcune scarne informazioni, in
forma di risposta a tre domande, sono posposte, in corpo minore, al
tesserino da compilare. Parrebbe quasi che il cittadino sia chiamato prima
a decidere sulla base della lettura del messaggio del Ministro e poi, se
vuol «saperne di più», ad informarsi. E in questo messaggio la
Bindi utilizza tutti i ben noti argomenti retorici sulla donazione, senza
fornire alcuna informazione in merito: un esempio da manuale di
manipolazione del consenso. Di più, se si leggono attentamente quelle
righe ci si può rendere conto dell'opera di disinformazione che viene
fatta. Il Ministro scrivendo «se Lei non avrà deciso potranno farlo i
Suoi familiari», suscita nel lettore l'impressione che la nuova legge
consenta ancora il riferimento ai famigliari, quando invece ciò vale solo
per la fase transitoria prevista dalla legge medesima, ma non per la
disciplina definitiva che li esautora completamente. Illustrando la nuova
normativa (espressamente dice di riferirsi alla «nuova legge sui
trapianti») il Ministro induce a credere definitivo ciò che invece -
per la legge - è meramente transitorio. Va inoltre aggiunto che il
Ministro non specifica in quale modo i famigliari - nella fase transitoria
-potranno eventualmente manifestare la loro opposizione. Il punto è
tutt'altro che irrilevante, dal momento che la nuova legge modifica al
riguardo quella precedente, indebolendo - già nella fase transitoria - il
potere di intervento dei famigliari.
Tutt'altro che sufficienti
sono altresì le informazioni articolate in tre punti, che seguono il
tesserino.
Il primo punto riguarda la dichiarazione di
volontà, che può essere fatta appunto tramite il tesserino e modificata
«in ogni momento» compilandone un altro. Si può altresì esprimere la
propria volontà presso la ASL di appartenenza o al medico di famiglia. E
questo è tutto. Se noi prendiamo in considerazione il testo della legge ci
accorgiamo però subito che esso prevede un meccanismo del tutto diverso, e
cioè l'istituzione di un sistema informatizzato che una volta attivato
dovrebbe consentire immediatamente di venire a conoscenza delle
dichiarazioni di volontà tramite consultazione dei dati dell'«archivio
nazionale». Invece di informare i cittadini che la legge riguardo alla
manifestazione della volontà introduce il silenzio-assenso (per cui chi
non sarà registrato nell'archivio come non donatore verrà automaticamente
considerato donatore), il Ministro, con l'invio del tesserino, se ne esce
con un nuovo sistema di raccolta delle dichiarazioni di volontà di cui non
si trova alcuna traccia nella legge approvata. Mentre la legge prevede che
le Aziende Sanitarie Locali notifichino ai loro assistiti, secondo
modalità che proprio il Ministro doveva stabilire, la richiesta di
dichiarare la loro volontà in ordine alle donazioni, il Ministro invita i
cittadini a compilare il tesserino oppure a recarsi presso le ASL a
dichiarare le loro volontà. Dunque, per lo meno nell'immediato, tocca agli
assistiti attivarsi e non più alle ASL.
Il secondo punto
concerne il problema di quando si procede al prelievo degli organi. Va
sottolineato che tra i compiti attribuiti dal legislatore (cfr. art. 2,
comma l°, lett. a) al Ministro della Sanità rientrava non solo quello
di far conoscere la nuova legge sui trapianti, ma anche quella precedente
sull'accertamento della morte. Insomma, su questo punto particolarmente
delicato, l'informazione doveva essere il più possibile chiara e precisa.
L'informazione fornita è invece per un verso scorretta, per l'altro
reticente. L'informazione non è corretta perché pare suggerire l'idea che
la morte cerebrale equivalga alla morte delle cellule cerebrali (si
afferma che «il cervello non funziona più e non potrà mai più funzionare a
causa della completa distruzione delle cellule cerebrali»). La definizione
di morte presupposta dalla legge è tuttavia diversa: essa fa propria
quella della legge precedente sull'accertamento di morte (la n. 578 del
1993)16 in cui la morte viene definita come «la cessazione irreversibile
di tutte le funzioni dell'encefalo», il che non esclude - se male non mi
appongo - l'attività residua di alcune cellule cerebrali. Insomma, la
morte cerebrale non è la morte cellulare.
L'informazione è
reticente perché, con tono rassicurante, si sottolinea che il prelievo
avviene soltanto dopo la morte del cervello, ma non si dice che esso
avviene - come di fatto succede - prima che il cuore abbia cessato di
battere. Ciò che non viene detto è che l'organismo viene conservato in una
sorta di “vita simulata” al solo scopo di mantenere in una condizione
ottimale gli organi da espiantare. La respirazione artificiale consente al
polmone di continuare la sua funzione, il polmone che respira fa battere
il cuore, il cuore che batte fa circolare il sangue, il sangue che circola
mantiene vitali gli organi. Con tutto ciò quell'individuo viene definito,
per legge, morto e quindi si può procedere al prelievo dei suoi organi.
Non voglio certo qui riaprire la discussione su questo nodo cruciale.
Un'informazione obiettiva avrebbe però dovuto quantomeno segnalare il
problema: si è preferito invece nasconderlo, mostrando al lettore
l'assoluta certezza scientifica della definizione di morte cerebrale (tra
l'altro presentata confusamente).
Il terzo punto, infine,
riguarda il problema dell'illiceità della compravendita degli organi e
della donazione anonima. Un'adeguata informazione avrebbe dovuto spiegare
perché si è optato tout court per un sistema di allocazione diverso dal
mercato, perché cioè si è ritenuta inammissibile la commercializzazione
degli organi. Vi sono senza dubbio delle buone ragioni per questa opzione
di fondo, ma andavano spiegate, perlomeno accennate, dal momento che nel
dibattito bioetico vi sono autori che sostengono la posizione
opposta.
Un discorso diverso meriterebbe l'anonimato. Anzitutto non è
vero che la donazione è sempre anonima. Il prelievo del rene da vivente è
ammesso dalla legge in prima istanza proprio sulla base di vincoli
parentali sussistenti tra il donatore e il beneficiario. Certo, il
prelievo da cadavere presenta altri problemi, non si può tuttavia negare
che negli ultimi anni si siano verificati fatti drammatici di cronaca in
cui proprio la diffusione data dalla stampa alle relazioni venutesi a
creare tra i famigliari del defunto donatore e i beneficiari (e i loro
congiunti) degli organi ha contribuito ad incrementare il numero delle
donazioni. E' significativo osservare come la legge preveda sanzioni per
chi fa commercio di organi (art. 22), nulla invece prevede per quel che
riguarda l'anonimato, pur ribadendo l'obbligo di garantirlo (art. 18)211.
Vi è un altro aspetto che non mi pare sia stato adeguatamente considerato:
da un punto di vista laico è lecito chiedersi se il gesto di solidarietà
che ci viene chiesto possa spingersi sino al punto di donare i nostri
organi a persone che magari disprezziamo.
Tiriamo le somme: le
informazioni contenute nella busta sono riguardo al primo punto scorrette,
riguardo al secondo quantomeno confuse, riguardo al terzo carenti e
comunque complessivamente insufficienti per poter consentire al cittadino
di operare «una scelta consapevole».
Due sono le cose che
più sconcertano nell'operato del Ministro.
La prima è che la
legge gli attribuiva il compito (art. 5) di disciplinare con un
apposito decreto attuativo le disposizioni sulla dichiarazione di volontà.
Al posto di emanare tale decreto il Ministro ha provveduto a recapitare il
tesserino di cui nella legge non si faceva alcuna menzione.
La
seconda è che la legge prevede che proprio il Ministro della Sanità
promuova una «campagna straordinaria di informazione sui trapianti»
(art. 23).
Si è invece proceduto in senso contrario:
oggi
il tesserino, domani l'informazione.
3- Dal momento che
i meccanismi attuativi della nuova legge sono rimasti sinora in gran parte
lettera morta, conviene soffermarsi sulla fase transitoria prevista dalla
legge medesima: qual è la situazione attuale riguardo al nodo cruciale
della dichiarazione di volontà?
A prima vista l'impressione è che nulla
sia cambiato rispetto alla legge precedente, poiché nella fase transitoria
(art. 23) viene ancora concesso ai famigliari di opporsi
all'espianto. Vi sono tuttavia tre differenze che sono di tutt'altro che
scarso rilievo.
In primo luogo, il dovere dei sanitari di
promuovere l'intervento dei famigliari è stato indebolito. Mentre per la
vecchia legge (ex art. 6) i sanitari responsabili dell'operazione
di prelievo prima di procedere all'espianto dovevano rivolgersi ai
famigliari con una «formale proposta», nella nuova legge si dice, molto
più genericamente, che essi sono tenuti ad informare (art. 3) i
famigliari riguardo alla possibilità dell'espianto e tocca a questi ultimi
attivarsi «entro il termine corrispondente al periodo di osservazione ai
finì dell'accertamento della morte» per presentare l'opposizione scritta
(art. 23). E' vero che formalmente non è mutato il criterio
temporale; ma, si noti, il periodo di osservazione nel 1975 era di dodici
ore, mentre nella nuova legge esso è stato dimezzato. Dunque i margini di
intervento per i famigliari, per presentare la loro eventuale opposizione,
sono molto più ristretti.
In secondo luogo è stato ridotto,
anche da un punto di vista sostanziale, il potere di opposizione dei
famigliari. Stando infatti alla lettera della legge precedente
l'opposizione di questi ultimi poteva vanificare persino la volontà di
donare espressa in vitam dal loro congiunto. Tale potere di opposizione è
stato esplicitamente escluso dal legislatore già nella fase
transitoria.
In terzo luogo è stata estesa la possibilità
dell'intervento oppositivo ad altri soggetti: il convivente more uxorio e
il rappresentante legale dell'incapace. Sotto questo profilo la disciplina
transitoria procede in senso contrario rispetto a quella definitiva
aumentando i soggetti che possono opporsi. Da quanto detto si può dunque
concludere che la fase di transizione è certo ancora in linea con la
vecchia normativa, presenta tuttavia delle variazioni che sono persino tra
loro contraddittorie: da un lato si cerca già di ridurre il potere di
opposizione dei congiunti, dall'altro si ampliano i soggetti legittimati
ad esercitarlo.
Da ultimo, ma non ultimo per importanza, sia qui
ricordato che - con riguardo alla dichiarazione di volontà - manca
completamente una tutela penale per la fase transitoria.
Il risultato è
che attualmente in Italia vige, per quel che attiene la dichiarazione di
volontà in ordine ai trapianti, un criterio ibrido tra il silenzio-assenso
informato previsto dalla nuova legge e il consenso presunto previsto da
quella vecchia. Per soddisfare compiutamente il primo criterio (eliminando
il ricorso ai famigliari) ci doveva essere una corretta informazione (come
disposto dalla legge), che sinora non c'è stata, anche se il cittadino è
già stato interpellato per iniziativa ministeriale, con l'invio di un
tesserino. Seguendo il secondo criterio, che contempla il ricorso ai
famigliari, allo Stato non spetta alcuna iniziativa istituzionale, il
cittadino invece è stato nel frattempo interpellato mediante il tesserino.
Manca un'adeguata informazione per avere il silenzio-assenso informato,
anche se siamo già stati chiamati ad esprimerci e quindi non si può più
parlare semplicemente di consenso presunto.
Ma come spiega l’invio
del tesserino? Come ha fatto il Ministro a legittimarlo, non essendo in
alcun modo previsto dalla legge?
A ben vedere il tesserino è il
risultato di una ben orchestrata operazione politica. Al posto di emanare
i decreti attuativi della nuova legge, che gli competevano, il Ministro
per un verso ha riattivato decreti esecutivi della precedente legge
abrogata e per l'altro - ad un anno di distanza dall'entrata in vigore
della legge - ne ha emanato un altro, introducendo, al posto della
procedura di notifica prevista dalla legge, una nuova procedura che fa
ventilare l'ipotesi del tesserino. Si faccia attenzione alla data: il
decreto ministeriale è dell'8 aprile 2000 e poco dopo, nel mese di maggio,
verrà inviato il tesserino, con l'unico scopo di avere (già nella fase
transitoria) un documento attestante la volontà favorevole al prelievo in
modo da neutralizzare l'eventuale opposizione dei famigliari (ancora
possibile in questa fase, ma inefficace qualora venga - attestata la
volontà favorevole all'espianto dell'interessato). Invece di attivarsi
per un'ampia campagna informativa sui trapianti, il Ministro con il
suo decreto e il tesserino di poco seguente ha preferito seguire la certo
più facile via di manipolare il consenso con un'informazione
mistificante.
Non so fino a che punto tutto ciò sia servito: le
"donazioni - se vogliamo ancora chiamarle così - sono aumentate, ma forse
non nella misura che ci si attendeva. E comunque dobbiamo, in conclusione,
chiederci: non è troppo alto il prezzo che siamo stati costretti a pagare
per qualche organo in più?
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