Un episodio da non dimenticare.
La Deputazione partenopea incontra a Grottammare Vittorio Emanuele II

(Riviera delle Palme, lug.-ott. 1999, pp. 6-8)
(citato in Rassegna Storica del Risorgimento fasc. III-2000, p. 465)

Nei giorni dal 12 al 16 ottobre 1860 Vittorio Emanuele II sosta a Grottammare prima di varcare il confine del Tronto. Prende alloggio nel palazzo Laureati e, il 13, vi riceve la Deputazione partenopea guidata da Ruggiero Borghi.
L'episodio ha trovato posto nella storia risorgimentale anche se, per quanto ci risulta, inadeguato alla sua importanza. Infatti, solo dopo quella presa di contatto che legittimava l'ingresso delle truppe sabaude nel territorio del Regno di Napoli senza che fosse stata dichiarata guerra, il re dette ordine di entrare in Abruzzo. Dopo pochi giorni Vittorio Emanuele e Garibaldi a Teano (o Caianello ?) posero definitivamente fine alla dittatura nel meridione d'Italia. Quindi l'incontro di Grottammare costituisce la naturale ed indispensabile premessa di quanto avvenne a Teano e, inoltre, una testimonianza di prima mano su avvenimenti fondamentali per il raggiungimento di quell'unità nazionale che ora si ama mettere in discussione a proposito ed a sproposito.
Grande rilevanza, ovviamente, viene riservata a tale episodio in opere di storia locale, in particolare in quelle apparse nella ricorrenza del cinquantenario, manifestazione che richiamò l'attenzione di tutta la stampa nazionale.(1)
Il nostro interesse, invece, è rivolto soprattutto a ricordare i motivi per cui il municipio di Napoli formò la deputazione, già esaurientemente messi in luce da Alceo Speranza ma che possono essere ulteriormente arricchiti con notizie scaturite dalla consultazione dell'Archivio Bonghi presso l'Archivio di Stato di Napoli (poi ASNA).(2)
Prima di affrontare la questione è opportuno premettere alcune note biografiche di Ruggiero Bonghi, artefice e guida della deputazione.(3)
Nato a Napoli nel 1826 si forma un'ampia e profonda cultura dopo aver studiato dagli Scolopi. Nel 1847-48 aderisce al movimento che tenta di ottenere la costituzione da Ferdinando II e funge da segretario della legazione straordinaria inviata a Roma da Napoli per la formazione di una lega degli stati italiani. La missione fallisce e, al termine della guerra del 1848-49, Bonghi si rifugia a Firenze e poi a Torino e a Stresa. Nominato insegnante all'università di Pavia nel 1859, l'anno seguente si trasferisce a Napoli e vi fonda Il Nazionale, dalle cui colonne sostiene vigorosamente le aspirazioni di quanti vogliono l'unità d'Italia sotto i Savoia e il riconoscimento della legittimità del loro intervento nel Napoletano per sostituirsi ai Borbone, dopo aver estromesso il Dittatore Garibaldi che aveva occupato e "liberato" quasi tutto il regno e costretto Francesco II a chiudersi a Gaeta con 30.000 soldati.(4)
Viene eletto deputato più volte fino al 1892. Nel 1862 a Torino fonda La Stampa, vissuta fino al 1865. Tra il 1866 e il 1874 a Milano dirige La Perseveranza e si dedica all'insegnamento universitario. Dal 1874 al 1876 è ministro della pubblica istruzione e istituisce la Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele di Roma. Membro di numerose accademie, svolge intensa attività culturale e pubblica numerose opere. Muore nel 1895 a Torre del Greco.
Intorno al problema della legittimità dell'intervento sabaudo nel napoletano fervono contrasti e trattative in Italia e all'estero, come risulta da alcune prese di posizione di Bonghi.
«Il Nord del 28 settembre dice che la condizione messa nell'ultima sua lettera dal Dittatore per venire a termini di conciliazione col gabinetto di Torino fosse il congedo da ministro del general Fanti. Cotesta è una nuova versione delle ultime trattative passate tra il Dittatore e Torino: non sappiamo quanto più vera o più falsa delle altre. Noi dubitiamo che questa come qualunque altra possa esser vera: nè ne crederemo nessuna sino a prova autentica del contrario: giacchè crederemmo di far torto a Giuseppe Garibaldi, prestando fede sia all'una, sia all'altra. Di fatti, come si poteva egli supporre che il Re, senza perdere ogni autorità ed ogni forza, avesse consentito simili richieste? Che l'arbitrio della scelta dei ministri non risiede nel Re, nè l'autorità di sostenerli nel Parlamento, ma bensì presso l'uno o l'altro degli individui più potenti della nazione. Ora, noi non esiteremmo a dire, che se il Re avesse ceduto in questo, e' si avrebbe a considerare per finita la costituzione e la monarchia (...) Dove sarebbe egli ora l'opportunità politica di licenziare il Cavour che ha presa avanti all'Europa la responsabilità dell'invasione delle Marche e dell'Umbria, e del general Fanti che n'ha fatto con tanta intelligenza il disegno, eseguito con tanta fortuna e bravura da lui stesso e dal Cialdini ? Perchè l'Italia dovrebbe distribuire all'uno dei suoi figliuoli la vergogna e l'esilio, all'altro la gloria e il potere, quando l'uno e l'altro hanno del pari contribuito a salvarla ed onorarla? (...) Noi ci permettiamo di dire al Dittatore che egli sdegna troppo le arti politiche per saperle usare, e che, se voleva riuscire al suo fine, di installare a Torino un ministero nel quale egli avesse maggiore fiducia in luogo di quello che governa ora, ha scelta la via, che menava a questo meno probabilmente, e ad ogni modo non vi ci avrebbe menato senza danno gravissimo per l'Italia (...)»(5)
Subito dopo questo articolo, sotto il titolo Recentissime, v'è una notizia importantissima che trascriviamo quasi integralmente: «Noi rechiamo il dispaccio col quale il Dittatore ha risposto alla comunicazione fattagli dal Municipio di volere spedire una deputazione a Vittorio Emanuele in Ancona: AL SINDACO LA RINGRAZIO DELLE SUE ESTERNAZIONI. SI SAREBBE POTUTA DISPENSARE D'INCOMODARSI PER ME. LA DEPUTAZIONE PARTA PURE PER ANCONA, CHE' IO NE RESTO CONTENTO.
Questi è bene il Dittatore che parla. Qui la sua parola è autentica e chiara e non ci è Italiano che non ne deve essere contento. Il municipio, presa la deliberazione di officiare direttamente il Re nostro in Ancona, ha creduto dover suo, ed era, di darne cognizione al capo del governo. La risposta di questo è tale, che nessuno può più nutrir dubbio nè spargere sospetti su quello che è la volontà sua, od abbuiarla con ordini contrarii e tirannici. Noi ne eravamo sicuri; ma se in alcuni pochi non eravamo riusciti a trasfondere la certezza che ci animava, questi pochi devono ormai essere affatto rassicurati e convinti (...) Il Re - verrà chiamato da una parola più potente e più influente che non è la nostra - dalla parola di Giuseppe Garibaldi, il quale (...) ha inteso compiutamente - e noi crediamo che non abbia frainteso mai - quali fossero il suo diritto e il dover suo rispetto al Parlamento e al Re. Ma la voce nostra, la voce di tutti noi, ha una non minore efficacia rispetto all'Europa, giacchè è quella che deve dar modo al governo Piemontese di giustificare la entrata del suo esercito nel regno, e la sua attiva cooperazione alla definitiva cacciata di Francesco secondo. Se il Borbone fosse stato già vinto e avesse abbandonato il regno, una nostra manifestazione sarebbe di minor necessità; ma stando le cose come sono, quanto maggiori saranno gli attestati della nostra risoluzione, che il governo dell'alta Italia potrà mostrare all'Europa, tanto maggiore diventa la sua ragione e la sua forza a difendere la volontà comune di tutti.
»(6)
Subito dopo Bonghi si fa promotore di una sottoscrizione nazionale per « (...) innalzare a Giuseppe Garibaldi un grandioso e solenne monumento che attesti ai posteri la nostra riconoscenza, che rammenti ai nostri figli quelle virtù che sole poterono salvare l'Italia, e sole varranno a mantenerla libera (...) Vedemmo sorgere una serie strana e singolarmente poetica di leggende, che narravano la vita e le geste maravigliose dell'eroe. Quando ancora infieriva la tirannide borbonica, s'udirono d'ogni parte canzoni che, celebrando i suoi prodigi, facevano di lui il simbolo dell'Italia redenta e della libertà. Garibaldi divenne quasi la coscienza del nostro popolo che, per la prima volta, s'era in lui educato e conosciuto (...)»
L'opposizione non dà tregua e cerca di convincere le potenze europee a non riconoscere la legittimità dell'intervento dei Savoia. Bonghi è pronto alla replica: «Quando Carlo III di Borbone volle regnare in Napoli, si pose a capo di un esercito, combattè a Velletri, a Capua, a Bitonto, e dopo aver compiuta la conquista del Regno, prese la corona con la punta della spada, nè credette aver mestieri del suffragio de' Napoletani per costituirsi legittimo sovrano di queste contrade. Quando i suoi successori più volte scacciati dal regno vi rientrarono, riconquistandolo, alla testa di eserciti stranieri, noi non sappiamo che avessero convocati Comizi, per assicurarsi che i popoli accettassero di buona voglia la restaurazione del loro dominio. Ma pure i borbonici ora esclamano, che Vittorio Emanuele, acclamato Re da un capo all'altro del Regno, da popoli che hanno abbattuto il governo borbonico per fondare il suo, Vittorio Emanuele sarebbe un predone, se assumesse il governo di Napoli prima che il voto delle popolazioni fosse regolarmente raccolto in solenne e libero comizio (...) Ciò che il plebiscito può fare è l'unione di questa provincia con le altre provincie libere dell'Italia superiore e centrale (...)»(8)
Intanto le truppe piemontesi si sono spinte nelle Marche meridionali e quindi non ha più senso incontrare il re in Ancona. Caduta l'ipotesi di una sosta di Vittorio Emanuele a Porto S. Giorgio, la deputazione incontra il sovrano a Grottammare, come risulta dai Dispacci particolari del Nazionale:
«Grottammare 12 ottobre ore 3 p. m. Chieti 13 ottobre p. m. per linea occupata. Napoli, 13 ottobre ore 9 p. m. La deputazione Napoletana fu oggi ricevuta dal Re a Grottammare, dove Sua Maestà ha il suo quartier generale, mentre la truppa s'avvia verso i confini. Bonghi presentò l'indirizzo del Municipio, Vacca l'indirizzo della Magistratura. Il Re accolse la Deputazione con franche e lealissime parole. Si dichiarò pronto a compiere i voti dei Napoletani per l'unificazione dell'Italia qualdo la volontà loro sia manifestata con libera e spontanea votazione. Bonghi.»(9)
Tornato a Napoli dopo un viaggio non meno avventuroso di quello dell'andata, Bonghi continua a sostenere le ragioni di chi vuole unirsi all'Italia: «A coloro, che sono convinti dell'utilità del Si, noi non abbiamo a dir nulla; essi non hanno bisogno, che noi diciamo loro quello, ch'eglino già sentono e comprendono da se medesimi. Ma a coloro i quali o sono pel No, o pendono tuttavia incerti tra l'una e l'altra urna, vorremmo richiedere se hanno ben riflettuto che cosa vale il No. In una materia così grave questa dimanda non è nè soverchia nè indiscreta (...) Il No dunque equivale segregazione, isolamento dal resto dell'Italia: e segregati, isolati, che cosa diverrà di noi? (...) ridiverremmo borbonici, o costituiremmo il centro rivoluzionario, che minaccerebbe tutta l'Europa (...) Che cosa è il Si? (...) è l'Italia degli Italiani (...)»(10)
Non manca, in Italia e all'estero, chi la pensa diversamente da Bonghi: «I nostri lettori hanno già veduto un articolo del Constitutionnel, firmato Boniface (...) Vi si dice che le dinastie possono esser rovesciate da rivoluzioni interne, e che il principio del non-intervento è la sanzione di questo dritto dei popoli di abbattere i governi impopolari - che ben potea Garibaldi aiutare la rivoluzione dell'Italia meridionale e scacciare il Borbone da Napoli, ma non poteva il Piemonte venire in soccorso della rivoluzione e di Garibaldi, movendo guerra al re di Napoli, senza ledere il dritto internazionale e violare egli stesso quel principio di non intervento che ha sempre invocato. Si giunge fino a dire che il diritto d'immischiarsi negli affari d'Italia non appartiene più al Piemonte che all'Austria (...) Quando ci si concede, che i popoli dell'Italia Meridionale avevano il dritto di scuotere, siccome han fatto, con l'aiuto di Garibaldi, il giogo borbonico, tutto l'argomento del sig. Boniface è un edificio fondato sull'arena. E' il solo forse in Europa il sig. Boniface che ignori come la rivoluzione abbia rovesciato, in Sicilia ed a Napoli, il trono borbonico? (...) Son forse gli eserciti piemontesi che han messo in fuga Francesco ed innalzata fra noi la croce Sabauda? L'ultimo dei Borboni ha abbandonata la reggia nella notte del 6 settembre, incalzato dalla rivoluzione: l'alba seguente vide sulla nostra bandiera lo stemma di Savoia, e Napoli accolse, come già le provincie avevano fatto, fra le acclamazioni universali, colui che rappresentava fra noi la rigenerazione italica e la monarchia di Vittorio Emanuele. Un nuovo governo sorse, e in quel giorno stesso, sulle rovine di una dinastia che cadeva fra le maledizioni e il disprezzo. I Piemontesi cominciavano a varcare il confine circa quaranta giorni dopo questi fatti. Dunque non le armi piemontesi, non l'invasione di un esercito regolare, rovesciarono qui gli ordini antichi, e posero le fondamenta de' nuovi. Se lo scrittore del Constitutionnel riconosce il dritto de' popoli di far la rivoluzione, dovrà riconoscere anche ne' popoli il dritto di costituire un governo nuovo in luogo di quello che si distrugge: senza di che il dritto che ci concede l'egregio scrittore sarebbe quello di fondar l'anarchia, e non altro (...) Dunque i Napoletani, che hanno potuto abbattere, nella Lucania, nelle Calabrie, nelle Puglie, ne' Principati, nel Sannio, il governo borbonico, hanno usato del loro dritto, sostituendo a questo il governo di Vittorio Emanuele, finora rappresentato dal General Garibaldi Dittatore (...) Il Piemonte è una potenza italiana. Il principio del non-intervento - che gl'Italiani comprarono col sangue versato sui campi e con la cessione alla Francia di due nobilissime provincie - il principio del non-intervento sta per assicurare l'indipendenza della penisola contro le usurpazioni dell'Austria - il principio del non-intervento sta per lasciare l'Italia a se stessa; e quindi non potrebb'essere inteso nel senso, che quel governo, quello stato, in cui la nazionalità Italiana è rappresentata, debba astenersi dal fare nella penisola tutto ciò ch'è indispensabile per impedire un sovvertimento in cui la libertà e l'indipendenza d'Italia perirebbero. O una nazionalità Italiana esiste, e il signor Boniface si avvedrà che paragonare l'occupazione piemontese all'intervento austriaco è, più che un errore, un'improntitudine. O il signor Boniface ce lo vorrà negare, e noi gli daremo il consiglio di mettere la sua dotta penna al servizio della Cancelleria aulica, dov'ei sarebbe degno continuatore di quella scuola, per cui l'Italia era un'espressione geografica, e nulla più (...) Francesco secondo potrebbe dunque aver la forza di ripigliare il regno, ma certamente non avrà il diritto di ripigliarlo. La riconquista fatta co' suoi malvagi soldati non sarebbe più giusta di quella che potrebbe far l'Austria, o la Russia coi suoi battaglioni (..) Si duole ancora il Boniface - e questa è la seconda obbiezione a cui dobbiamo rispondere - che Vittorio Emanuele sia entrato nel territorio napoletano senza prima dichiarare la guerra. A chi, dunque, dovea dichiarar la guerra? Ai popoli delle Due Sicilie, che lo chiamano? a Garibaldi, che gli è suddito, e governa per lui? avrebbe dovuto dichiarar la guerra a se stesso? (...) La dichiarazione che il sig. Boniface desidera è scritta nel manifesto di Ancona, col quale Vittorio Emanuele à annunziato all'Europa il suo prossimo ingresso nel regno. Che altro si vuole? (...) »(11)
A otto giorni dall'incontro con il sovrano finalmente Bonghi trova modo di darne un resoconto esauriente, da cui traiamo alcuni brani: « (...) Il concetto che mosse parecchi a rompere gl'indugi e il municipio napoletano a spedir deputati a Vittorio Emanuele, era appunto questo: che il paese dovesse per ogni modo attestare all'Europa il suo fermo volere di fare di questa Italia una patria potente, unita, ordinata, tutta raccolta sotto un solo scettro e sotto un solo governo (...) Non fu facil cosa raggiungere Re Vittorio Emanuele. Essendo impossibile di traversare il regno, si dovette prendere il giro tanto più lungo di Livorno, Bologna, ed Ancona. Però, giunti in fretta a quest'ultima città, il Re n'era già partito per Macerata; anzi era già in Loreto. Interrogata la Maestà Sua, ci fece sapere, che avrebbe ricevuta la deputazione napoletana in Grottammare, piccolo e misero borgo, in sulla spiaggia dell'Adriatico, e a' confini del regno (...) Da Ancona, dove la deputazione giunse l'11, a Grottammare, dove aveva a presentarsi al Re il 13, ci ha un'ottanta miglia: nè da per tutto ci ha posta. Si ebbe a giugnere a Grottammare ciascheduno come potette, e con que' mezzi di trasporto che ciascheduno si seppe procurare. Appena fummo giunti e raccolti tutti, il Re ci fece dire che ci avrebbe ricevuti alle 11 a. m. (...) »(12)
Qualche notizia sull'incontro di Grottammare si trova pure nelle note biografiche redatte dal figlio di Bonghi, anch'esse conservate all'ASNA. Ne traiamo poche righe: « (...) Il municipio deliberava in seguito mandare una deputazione guidata da Ruggiero Bonghi, eletto dal quartier di S. Ferdinando, a Vittorio Emanuele, che fu incontrato a Grottammare il 13 ottobre, e presentargli tal'indirizzo. La Deputazione tornata a Napoli trovò che era stato indetto il plebiscito e Bonghi in un supplemento del Nazionale del 21 Ott. fece la relazione del viaggio e dell'incontro, riferendo di aver fatto ritorno passando per Genova, da dove aveva fatto una corsa a Torino per conferire con Cavour (...) »
Nelle carte dell'Archivio Bonghi sono inclusi anche i fogli d'invito predisposti dal comitato organizzatore delle celebrazioni del cinquantenario a Grottammare nel 1910-11, dove sono trascritti molti dei brani apparsi ne Il Nazionale di cinquant'anni prima, a conferma dell'importanza del ruolo avuto da Bonghi nell'occasione.
Per concludere aggiungiamo alcune brevi note:
- l'iniziativa di formare la deputazione scaturisce da una delibera del Municipio di Napoli, molto probabilmente su suggerimento di Ruggiero Bonghi, che era in ottimi rapporti con Cavour;
- il luogo dell'incontro viene fissato dapprima in Ancona, poi a Grottammare. Per come si sono svolti i fatti e per quanto risulta dalle carte dell'Archivio Bonghi, in mancanza di documenti probanti, non sembra sostenibile che la scelta di Grottammare sia scaturita da pressioni di esponenti locali tra i quali andrebbe annoverato Pietro Laureati, che in passato era stato Luogotenente di Porto a Grottammare;(13)
- il capo della famiglia Laureati era allora il marchese Marino, già vice console del Regno di Napoli a Grottammare per oltre quarant'anni e fratello primogenito di Pietro. Nell'inventario dell'epistolario Bonghi non v'è traccia di corrispondenza con personaggi di Grottammare e luoghi vicini, né intorno all'autunno 1860 né in altre occasioni.

Note
(1) - Cfr. E. SALARIS, Un episodio del Risorgimento. Il 12 ottobre 1860 a Grottammare, Nuova Antologia, 1.8.1911; A. PIGNOCCHI, a c. di, Grottammare 1860-1910.
Onoranze cinquantenarie, Grottammare 1912; A. SPERANZA, Il Natale della Patria a Grottammare MCMXI, Ascoli Piceno 1911. Particolare attenzione va riservata alla bibliografia citata in queste opere.
(2) - Dal volume dell'inventario di tale fondo stralciamo un passo: «L'Archivio Ruggiero Bonghi, composto da un ricco epistolario, da manoscritti e pubblicazioni diverse, raccolto in 139 buste, è stato depositato presso l'Archivio di Stato l'11 novembre 1994. L'ordinamento iniziato presso la famiglia dalla dott. Fortunata Turino Carnevale e da Rosanna de Simone è stato portato a termine dalla stessa de Simone e dalla dott. Stefania d'Aquino di Caramanico, che hanno provveduto a compilare l'inventario analitico. I funzionari dell'amministrazione archivistica sono stati notevolmente agevolati nel loro lavoro dalla paziente opera condotta dai figli di Ruggiero Bonghi, Luigi e Marco, che si sono preoccupati, dopo la morte del padre, di curare la conservazione del prezioso archivio e di ricercare tutto quel materiale - lettere, articoli, ecc. - che si trovava, per sua natura, al di fuori di esso. Al tempo stesso hanno ritenuto opportuno di non alterare l'ordine in cui si presentavano le carte (...) ». Esiste in commercio un’edizione di tale inventario.
(3) - In merito è stata consultata la biografia di Bonghi riportata nel volume III del Grande Dizionario Enciclopedico UTET, curato da P. FEDELE, Torino IV/1985, p. 525. Si tenga presente che molto più ricche sono le notizie riportate da A. Speranza nel testo già citato.
(4) - Da alcuni anni sono apparse numerose opere che tendono a mettere in sinistra luce l'opera di repressione del banditismo disposta dal governo di Torino e messa in atto dall'esercito. Citiamo solo A. CIANO, I Savoia e il massacro del Sud, II/1996 e rimandiamo alla bibliografia ed alle fonti d'archivio ivi citate.
(5) - ASNA, Archivio Bonghi, b. 69, Il Nazionale del 5.10.1860.
(6) - ASNA, ibidem.
(7) - ASNA, ib., Il Nazionale del 9.10.1860. Si ricordi l'importanza di Luigi Mercantini, ripano, nel contesto dell'esaltazione poetica di Garibaldi, come illustrato recentemente in L. MERCANTINI, I Canti, a cura di E. DILETTI, Acquaviva Picena 1996.
(8) - ASNA, ib., Il Nazionale del 13.10.1860.
(9) - ASNA, ib., Il Nazionale del 14.10.1860.
(10) - ASNA, ib., Il Nazionale del 19.10.1860.
(11) - ASNA, ib., Il Nazionale del 20.10.1860.
(12) - ASNA, ib., Il Nazionale del 21.10.1860.
(13) - ASNA, ib., Il Nazionale del 21.10.1860.

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