Giuseppe Paci, parone grottammarese che, per primo, dopo la caduta di Roma, risalì il Tevere con carichi eccezionali

(Cimbas n. 11-1996, pp. 18-32)



Paròn Giuseppe Paci è un personaggio della marineria grottammarese del primo Ottocento che, ancor oggi, sopravvive nella memoria storica collettiva grazie al breve cenno che ne fa Gian Bernardino Mascaretti nelle Memorie Istoriche di Grottammare per aver portato due colossali colonne da Venezia a Roma con il suo legno. (1)
Tra i viaggi da lui compiuti e la pubblicazione del libro corrono 14 anni. Ciò potrebbe spiegare almeno in parte, supponendo che quell’impresa fosse ben nota ai compaesani, perché lo storico non si sia soffermato a descriverla particolareggiatamente né abbia citato le fonti a cui attingere maggiori informazioni. In tal modo, però, ha privato noi, ormai all’oscuro di quanto è successo più di un secolo e mezzo fa, della possibilità di conoscere i dettagli della navigazione che hanno fissato il nome di Paci nella storia marinara del luogo.
Ho avuto già modo di rilevare che ben altra risonanza ebbe un analogo trasporto effettuato da Alessandro Cialdi il quale, nel 1839, recò dalla laguna veneta a Roma gli obelischi di villa Torlonia.(2)
Si tratta però, in questo caso, di un capitano con ben altra preparazione culturale.(3)
L’oscurità che avvolge l’episodio ricordato da Mascaretti può essere ora parzialmente ridotta grazie alla individuazione di documenti coevi che forniscono qualche chiarimento sui peripli della penisola compiuti da G. Paci. Infatti le due colonne che sorreggono l’arco di Placidia nella ricostruita Basilica di San Paolo furono trasportate in due distinti viaggi nell’arco di un anno. Non sappiamo, invece, come, quando e da chi furono trasportate le altre 41 colonne del tempio.
Oltre a riportare brevi note tratte dal dizionario del Moroni, al fine di riservare a chi legge il piacere di attingere le notizie direttamente alla fonte, si trascrive integralmente il testo di vari articoletti apparsi nel Diario di Roma e nelle Notizie del giorno degli anni 1827 e 1828.(4)
«Nel 1827 e nel 1828 il padron Giuseppe Paci da Grottammare fu il I.° che dopo la decadenza dell’impero romano fece galleggiare sul Tevere massi colossali; imperocché trasportò da Venezia a Roma le due colonne di granito bianco e nero del Sempione di palmi romani architettonici 51, per l’arco di Placidia della chiesa di S. Paolo fuori le mura di Roma. Di tale trasporto parla il Costanzi, l’Osservatore di Roma t. 2, supplemento p. 43, e del Closse che ne assunse l’impresa, effettuata dal Paci (…) » «Per la basilica di S. Paolo (…) già aveva fatto galleggiare sul Tevere i massi per le due colonne dell’arco di Placidia il Paci di Grottammare, che lodai nel vol. LXVII, p. 83.»(5)
Aggiungiamo anche notizie stralciate dalle opere di Cialdi e Gasparoni al fine di colmare, almeno parzialmente, le lacune sugli aspetti tecnici dell’impresa portata a termine dal parone grottammarese.
I brani riportati suggeriscono alcune considerazioni:

- Dimensioni della colonna
Vengono forniti i seguenti dati:

Esaminato il testo del Martini, propendiamo a considerare tutti i valori, e non soltanto il peso, espressi in unità milanesi.(6)
I coefficienti di trasformazione in unità metriche sono:
1 braccio = 0,594936 m.
1 oncia = 12 punti = 0,036265 m.
1 punto = 0,003022 m..
1 libbra grossa = 0,762517 kg.
Ne consegue che la lunghezza è pari a m. 11,558, il diametro a m. 1,389 ed il peso a 48,801 t., valori che, ovviamente, devono risultare compatibili con le dimensioni della barca destinata ad accogliere la colonna. Al peso della colonna va aggiunto anche quello della struttura di sostegno del carico, da sistemare nella stiva. Su tali problemi non abbiamo informazioni dirette ma, probabilmente, Paci, come più tardi Cialdi, fu costretto navigare con modesta riserva di galleggiamento.

- Imbarcazione impiegata
Dal periodico risulta essere il pielego SS. Francesco e Paolo, comandato dal paròn Giuseppe Paci di Grottammare. Purtroppo il giornalista non indica le caratteristiche della barca, il nome dell’armatore e il porto di ascrizione. Grazie alla disponibilità dell’elenco dei passaporti rilasciati a Grottammare nell’anno 1827 possiamo verificare se il pielego del Paci appartenesse alla flottiglia del suo paese.
Il nominativo non è compreso nell’elenco dove (vedi appendice documentaria) appaiono però tre pieleghi con denominazione abbastanza simile, posseduti da armatori locali:
- S. Francesco di Paola, di Francesco Loy, passaporto n. 26, portata 28 t.;
- S. Francesco, di Giovan Battista Marchetti,passaporto n. 25, portata 35 t.;
- S. Francesco, di Aldebrando Toni, passaporto n. 28, portata 23 t.
Tutte e tre le imbarcazioni hanno una portata nettamente inferiore al peso della colonna. Potremmo perciò escludere che la barca di paròn Paci fosse tra quelle ascritte alla luogotenenza di porto di Grottammare a meno che, quell’anno, non fosse stato omesso il pagamento della tassa per il passaporto di qualche legno.
Incidentalmente notiamo che il nome SS. Francesco e Paolo, potrebbe essere un fraintendimento di S. Francesco di Paola in quanto dall’esame delle statistiche delle imbarcazioni del I circondario dell’Adriatico finora raccolte non risulta nessuno scafo dedicato ai due santi. Sono molti, invece, quelli dedicati al protettore dei marinai. Tra l’altro, si ricorda che proprio a Grottammare sorge un piccolo santuario dedicato al santo calabrese che, in passato, fu oggetto d’intenso e devoto culto da parte dei marinai di Grottammare e dei dintorni.
Non si può escludere che il pielego in questione appartenesse ad armatore di altro circondario o stato.
Va infatti osservato che, nel n. 34 del 25 agosto 1825 delle Notizie del giorno, risulta arrivata a Roma una barca carica di marmi, proveniente da Carrara, comandata dal toscano Giuseppe Paci. Forse si tratta dello stesso personaggio che qui c’interessa, allora parone di una barca della Versilia specializzata nel trasporto di marmi: da qui probabilmente l’attribuzione della nazionalità toscana al Paci. Non si può escludere a priori un errore di stampa, tanto più che in esemplari dello stesso periodico emergono refusi di vario genere, e volte corretti nei numeri successivi, a volte passati sotto silenzio.

- Durata del viaggio
Il 18 luglio 827, sul Naviglio Grande di Milano, transita la prima colossale colonna di granito bianco e nero, destinata alla volta di Venezia e, poi, di Roma.
Il 1 ottobre 1827 il pielego giunge alla foce del Tevere e l’11 ottobre davanti alla Basilica di S. Paolo.
Il 4 gennaio 1828 la colonna viene scaricata da bordo, dopo il completamento dei lavori necessari per accogliere la barca e ad adottare la banchina dei mezzi di sollevamento utili per effettuare le operazioni di scarico.
Non conosciamo la data di partenza del pielego alla volta di Venezia per imbarcare la seconda colonna, il cui arrivo a Milano era previsto entro il settembre 1827. Il giornalista mette in rilievo che l’appaltatore Closse sarebbe partito per la città veneta – non sappiamo se via mare o se via terra – poco dopo il completamento delle operazioni di scarico della prima colonna.
Il 1° luglio 1828 la seconda colonna viene sbarcata dal pielego SS. Francesco e Paolo. La durata complessiva delle operazioni (trasporto dalla cava a Milano e a Venezia, trasbordo sul pielego partito da Roma ed arrivato a Venezia, periplo dell’Italia, risalita del Tevere e scarico della colonna) ci sfugge, ma sembrerebbe ridotta rispetto al caso precedente. Non possiamo però determinare con esattezza il tempo dedicato alle varie fasi dell’operazione e, in particolare, alla navigazione. Sembra tuttavia lecito affermare che il secondo viaggio si sia svolto tra la primavera e l’estate in condizioni meteorologiche più favorevoli del precedente e, quindi, abbia avuto durata inferiore.

- Operazioni di sbarco
La prima colonna viene sbarcata in un’ora con l’opera di 210 persone, tra le quali ben 197 condannati ai lavori forzati.
Non è chiaro se nel numero complessivo siano da comprendere anche i marinai di Paci, che hanno collaborato «specialmente nella legatura delle taglie e polce, e nella imbracatura della stessa colomba.»(7)
La seconda viene sbarcata in 35 minuti con l’opera di 200 persone. Anche in questo caso l’equipaggio presta la sua preziosa collaborazione. Anzi, va rilevato che nei giorni precedenti allo sbarco della colonna, il canale dal Tevere alla Basilica viene scavato di 7 palmi (1,56 m.) a cura di Closse e Paci. In tali lavori sono stati impiegati anche i marinai del pielego? Non lo sappiamo.

- Aspetti tecnici desumibili dai testi di Cialdi e Gasparoni
Innanzitutto si ricorda che il pielego, forse l’unità mercantile più diffusa nel XIX secolo prima dell’avvento delle navi a vapore, rappresenta il punto d’arrivo dell’evoluzione del trabaccolo che, nel secolo precedente, era stato largamente impiegato nei traffici marittimi adriatici.
Il Cialdi carica a Venezia sul trabaccolo Il Fortunato due obelischi provenienti dalle cave di Baveno, a suo parere i massi più grandi di tutti quelli cavati fino ad allora. Ciascuno di essi è alto 10,227 m., con larghezza alla base di m. 1,117 e peso di 22,187 t. Trasportati a Milano su piatte, vengono qui sbarcati per essere sottoposti a finitura. Quindi, sempre su piatte, giungono a Venezia passando per Pavia, il Po, vari canali, l’Adige e la laguna. Per il trasporto finale a Roma Cialdi è obbligato a servirsi di un battello in grado di navigare per mare e per fiumi con fondali tra 1,34 e 1,78 m., come il Tevere e l’Aniene. Per tale motivo orienta la scelta su uno scafo di portata compresa tra le 60 e le 70 tonnellate. A Civitavecchia trova un battello di 70 tonnellate, definito indifferentemente da Gasparoni trabaccolo o pielego, chiamato Il Fortunato, con il quale il 5 luglio 1839 salpa per Venezia, dove arriva il 15 agosto dopo una navigazione ostacolata da burrasche. Fa togliere la coperta della sua nave e preparare nella stiva una invasatura capace di accogliere i monoliti senza alcun danno per essi e per le strutture. Quindi il 24 approda in Arsenale nei pressi delle chiatte contenenti gli obelischi, arrivate il 10 agosto. Il 28 si prepara per l’imbarco predisponendo cinque argani per il sollevamento dei blocchi, fasciati da quattro imbracature: a ciascuna delle prime tre di esse si attacca un bozzello a doppia puleggia, all’ultima invece due bozzelli a doppia puleggia. Vengono anche predisposti 25 fila di “tiri” e i corrispondenti bozzelli di ritorno. Per l’operazione, svoltasi il giorno seguente alla presenza di numeroso pubblico, sono impiegati 250 operai. Il primo obelisco, chiamato Don Giovanni, viene infilato obliquamente nella stiva per la cima in 50 minuti. Ovviamente la barca era stata opportunamente zavorrata. Per il secondo obelisco, detto Donna Anna, occorrono un’ora e 40 minuti. Il giorno successivo la nave viene alberata, il carico puntellato e ci si appresta alla partenza. La navigazione si presenta ricca d’incognite e di rischi poiché la portata del bastimento è molto prossima al carico imbarcato, stimato dal capitano pari a 66 tonnellate (peso degli obelischi, delle invasature e dei puntelli). La partenza avviene il 5 settembre. Il 13 una furiosa tempesta costringe Cialdi a cercare rifugio a Durazzo. Ripartito, il 27 settembre è colto da altra burrasca che danneggia l’alberatura e la velatura. Arrivato a Fiumicino il 2 ottobre, viene trascinato dai bufali lungo il Tevere fino a S. Paolo e poi a Ripa Grande. Di qui, il 26 novembre, prosegue fino alla confluenza dell’Aniene, che risale fino alla località Sacco Pastore nei pressi della via Nomentana e del fosso Sant’Agnese. Lì il battello viene tirato in secco e prosegue con il suo carico fino alla villa Torlonia con l’ausilio di argani. In totale, fino a S. Paolo, Cialdi percorre 2.292,9 miglia romane. Paro a 3.414,897 Km. On particolare: 98,100 km. Da Baveno a Milano, 380,500 da Milano alla Cavanella, 123,950 da Cavanella a Venezia. In tutto 602,55 km. o 404,4 miglia romane da Baveno a Venezia; 1.864 miglia romane da Venezia a Fiumicino; 34,9 km., cioè 23,5 miglia, dalla foce del Tevere a S. Paolo.(8)
Il Cialdi sottolinea che mai, dal tempo degli antichi Romani, carichi così eccezionali avevano risalito il Tevere. Evidentemente non ricordava, o ignorava, l’impresa di Giuseppe Paci il quale, tra l’altro, dalle cifre relative alla movimentazione del carico, sembra aver sfruttato almeno una cinquantina di persone in meno di Cialdi.

- I lavori di ricostruzione della Basilica di S. Paolo
Riteniamo opportuno dare alcuni cenni sugli avvenimenti che portarono alla necessità di ricostruire la basilica sulla via Ostiense. Purtroppo ancora oggi si verificano disastri (incendi, crolli) che lasciano sconcertati per la rapidità dell’opera di distruzione e le difficoltà di procedere al ripristino delle cose distrutte (Teatro Petruzzelli, Teatro La Fenice, torre campanaria a Pavia, Cattedrale di Noto).
«La Basilica durante la notte tra il 15 e il 16 luglio del 1823 si incendiò per la negligenza di un operaio. Della antichissima e gloriosa costruzione non rimasero in piedi che il transetto, l’arco santo e parte dell’antica facciata che poi durante i lavori si dovè completamente atterrare. Gli antichi affreschi del Cavallini vennero distrutti; le colonne di pavonazzetto che sorreggevano la nave maggiore si calcificarono quasi tutte; i mosaici stessi dell’arco santo e dell’abside rimasero gravemente danneggiati. Solo il chiostro restò intatto.
Sparsasi per il mondo la notizia della grave sventura, da ogni parte giunsero ricchissimi doni per la sua ricostruzione, immediatamente ripresa con zelo. Ma il cattivo gusto del tempo rovinò ogni cosa. Architetti come il Bisio, il Camporesi ed il Belli venero chiamati a dirigere i lavori che più tardi furono allogati a Luigi Pichetti. A lui dobbiamo non solo l’erezione del brutto campanile, ma anche il disegno freddo ed accademico dell’esterno e dell’interno.
I fratelli Vespignani disegnarono il portico, questo fu poi modificato e condotto a termine dai Calderoni. I musaici che l’adornano sono derivati da cartoni del Cusani e dell’Agricola. Il 3 ottobre del 1840 Gregorio VI solennemente riconsacrava il transetto della chiesa e dieci ani più tardi Pio IX l’intera fabbrica, che forse solo oggi possiamo dire sia stata portata a compimento. La chiesa attuale misura ben 123 metri di lunghezza, 60 di larghezza tra le navate esterne e 23 di altezza (…) L’arco trionfale grava su due colonne di granito del Sempione alte ben 14 metri. Le colonne della navata centrale sono di granito di Montorfano.
»(9)
Trascriviamo infine il testo dedicato dal Costanzi alla ricostruzione della Basilica.(10) «Rappresentò inoltre la Commissione stessa le sue diligenze per la scelta dei marmi delle nuove Colonne, che debbono disporsi nel lor’ordine per supplire a quelle, che l’incendio rese inservibili, nella qual scelta non mancavasi di sentire il voto dell’Accademia di S. Luca, e già in forza di questo si era stabilito d’impiegare dieci colonne di Pavonazzetto, per ornamento e decorazione del Tempio, fuori della nave grande, di usare i marmi di Carrara bianchi per formare le basi, e li capitelli delle colonne, e per balaustre, impellicciature e frammenti del pavimento, varj marmi dello stato Pontificio. E le colonne stesse semiarse della Chiesa. Siccome poi nel chirografo faceva conoscere il pontefice, che riedificare la Basilica secondo l’antica architettura, dovevasi togliere quelle parti che ne’ tempi posteriori alla sua prima fondazione avevano alterata la semplice e grandiosa architettura di questa, quindi si decise con l’approvazione degli Accademici di S. Luca, di atterrare la divisione della nave trasversa, opera de’ tempi posteriori innalzata al fine di sorreggere la lunga tratta della contignazione, che copriva la nave medesima, e di togliere insieme il grande Arco, che accompagnava quello di Placidia, non meno che le otto Colonne, che decoravano, e sostenevano questo muro di divisione.
§ 5
Si forma l’arco di Placidia
La commissione prese quindi a trattare il ristauro del celebre arco detto di Placidia, da Placidia figlia dell’imperatore Onorio, che lo costruì sopra grandi pilastri, ma che dopo pochi anni avendo mostrato delle crepacce, il Papa San Leone Magno fortificò sotto gli occhi della medesima Placidia con un sotto arco retto dalla due immense colonne di marmo Imenio, e vi pose in mezzo l’immagine del Salvatore in Mosaico, ed arco che fra le bellissime parti, che si ammiravano in questa Basilica aveva il primo luogo, sì per la sua mole, sì pel musaico, che lo copriva, come ancora per le due gigantesche colonne che lo sorreggevano, e che il fuoco divoratore non aveva risparmiato, ma offeso avea non leggermente con dolore degli ammiratori de’ Capi d’opera, fra i quali questo si annoverava, e subito secondo il sentimento di detti Accademici, si accinse a ripararlo solidamente, col demolire l’antico, e costruirlo di nuovo interamente, rimettendovi in opera tutto il Mosaico che già vi esisteva, ed a pensare a provvedere le immense colonne, che dovevano sostenere un tale arco. Per una convenzione fatta con il Signor Guglielmo Closse doveva questi condurre, e scaricare a tutte sue spese nel sito più adattato nel Tevere prossimo alla Basilica due Colonne di granito bianco, e nero del Sempione della misura di palmi romani architettonici cinquantuno, ed once due, lavorate a compimento in guisa, che non vi manchi se non l’allastratura per il prezzo di scudi 8500; e ciò si è felicemente compito, essendo giunta la prima colonna nel luogo stabilito sul Tevere, dal quale fu estratta il dì 4 Gennajo dell’anno 1828, ed essendosi approntata la seconda nel fine del mese di giugno dello stesso anno nel medesimo sito, da lui fu tolta il primo del mese seguente di Luglio. Ambedue sono state convenientemente forbite, ed ornate di capitelli e di basi di ordine jonico di marmo di Carrara, eseguiti di finissimo lavoro. Sono elleno state nell’anno 1930 poste in opera, e sostengono il nuovo Arco, come compito si è in quest’anno il restauro del mosaico che è nella parte anteriore dell’Abside mantendovisi perfettamente lo stile del tempo, in cui fu formato, anzi del secolo decimoterzo.
»

- Chi era Giuseppe Paci
Ben poco siamo in grado di aggiungere alle notizie fornitaci da Mascaretti e dai giornalisti romani. Infatti, dall’esame degli stati delle anime della chiesa di S. Giovanni di Grottammare dell’anno 1827 risultano censiti i seguenti nucleo familiari con cognome Paci:
- G. Battista Paci qm Francesco, nato il 2.6.1778, ammogliato con Angela Loy;
- Giuseppe Paci qm Ottavio, nato a Fermo il 28.6.1770, ammogliato con Maria Catarina Speranza;
- Carlo Paci qm Luigi, nato in Ascoli, sposato con Elisabetta Cappellini;
- Bernardino Paci qm Giacomo Antonio, nato il 7.9.1781;
- Angelica qm Filippo Taffoni, nata il 28.10.175, vedova di Filippo Nicola Paci e madre di Giuseppe Maria, nato il 9.1.1791;
- Niccola qm Luigi, nato l’8.3.1776, sposato con Carmina Ragnoli e padre di Giuseppe Maria nato il 9.9.1810;
- Francesca qm Filippo Ciceroni, nata il 16.1.1767, vedova di Benedetto Paci;
- Angelo Pietro qm Girolamo, nato il 30.4.1747, sposato con Anna Felici;
- Francesco Niccolò, nato il 5.3.1785.
Dei tre Giuseppe Paci censiti possiamo senz’altro trascurare Giuseppe Maria figlio di Niccola qm Luigi in considerazione dell’età.
Dei rimanenti individui, Giuseppe Paci qm Ottavio nel 1827 ha 57 anni e potrebbe navigare ancora. Sua moglie molto probabilmente appartiene ad una famiglia di marittimi grottammaresi, indizio che potrebbe farci collegare il marito all’ambiente marinaro. Il fatto che sia nato a Fermo contrasta con la cittadinanza di Grottammare dichiarata dai cronisti, ma in tale materia non si può oggi pretendere dai giornalisti di allora una scrupolosa fedeltà ai dati anagrafici.
Giuseppe Maria Paci, figlio di Filippo Piccola e di Angelica, nel 1827 ha 36 anni ed è quindi nel pieno delle forze.
Non abbiamo alcun elemento che possa farci propendere decisamente a favore dell’uno o dell’altro. Né, tanto meno, possiamo escludere che esista un altro Giuseppe Paci non censito perché assente, come poteva facilmente accadere ad un parone navigante, o perché emigrato in altro paese.
Nemmeno nell’elenco delle carte di comando rilasciato dalla luogotenenza di Grottammare in quegli anni risultano elementi utili in proposito.(11)
Pertanto, per il momento, riteniamo impossibile identificare con certezza il parone del pielego che ha trasportato le colonne.
Rimane incontestabile però l’importanza della sua impresa e ben si prestano a commentare questa breve rivisitazione del passato le orgogliose parole che Cialdi dedicò alla marineria mercantile pontificia: «se a giorni nostri non spiegossi la pontificia bandiera ai venti su magnifiche navi, i piccoli bastimenti che han solcato i mari, e non ostante la tenue lor mole, ed il misero loro armamento hanno condotto a prospero termine difficili spedizioni, ci somministrano una convincentissima prova del giudizio che dobbiamo portare dell’attività, del coraggio e dell’idoneità degli uomini formanti la nostra marina, e di ciò che può attendersene quando si porga loro occasione di adoperarsi in qualche in tra presa.»(12)

Note
(1) G. B. MASCARETTI, Memorie istoriche di Grottammare, Ripatransone 1841, p. XXV nota 2. Ora in V. RIVOSECCHI, a c. di, Grottammare. Percorsi della memoria, ALDA Grottammare 1994 p. 60 nota 37.
(2) Cfr. A. SILVESTRO, Il naufragio del brigantino Italia, Rivista Marittima, luglio 1994, pp. 119-121. Il capitano civitavecchiese ebbe l’accortezza di dedicare alcune pagine al suo viaggio che, peraltro, costituì il tema di un’opera d’altro autore. Cfr.: A. CIALDI, Sul Tevere, sulla unione dei due mari e sulla marina mercantile dello Stato Pontificio, Roma 1817, pp. 56 ss.; F. GASPARONI, Sugli obelischi Torlonia nella villa Nomentana, Roma 1842. V. anche J. B. HARTMANN, Roma neoclassica, 1973 Roma, pp. 187-95, con brani stralciati dalle memorie di C. Stampa.
(3) Ricordiamo solo alcuni titoli della ricchissima bibliografia di Cialdi: Nozioni preliminari per un trattato sulla costruzione dei porti, Roma 187; Osservazioni idraulico-nautiche, Roma 1848; Parallelo geografico ed idrografico fra i porti di Civitavecchia e Livorno, Roma 12846; Sul moto ondoso del mare e su le correnti di esso specialmente su quelle litorali, Roma 1866; Cenni storici dei fari antichi più famosi e di alcuni moderni compresi quelli di Ancona, Civitavecchia, Ostia, Anzio e Circeo, Roma 1877; ecc.
(4) Si tratta di periodici pubblicati nella ben nota tipografia romana dei Cracas, cfr. P. LUCCICHENTI, I Chracas stampatori in Roma (1698-1771), L’Urbe IV-1984, Roma, pp. 136-142.
(5) G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastico, Venezia (post 1840), voll. 67 p. 83 e 75 p. 105.
(6) A. MARTINI, Manuale di metrologia, Torino 1883(ora Roma 1796), pp. 350, 351, 595, 598. A Roma per il braccio risultano tre diverse definizioni e le libbre grosse e i punti non sono catalogati. Traducendo la lunghezza fornita dal Costanzi in unità metriche (1 palmo = 0,223422 m.; 1 oncia = 0,0176618 m.) troviamo un valore leggermente più piccolo del precedente: m. 11,4322.
(7) “Polce = bozzello con una sola carrucola”, cfr. S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, vol. XIII; “”, cfr. A. GUGLIELMOTTI, Vocabolario marino e militare, Roma 1889.
(8) Le cifre riportate vanno considerate con cautela, in quanto Gasparoni per i totali finali dà 2.888 km. pari a 1.993 miglia romane, delle quali 4,5 percorse via terra da Sacco Pastore alla villa Torlonia: cifra che non concorda con la somma delle distanze parziali.
(9) E. LAVAGNINO, San Paolo sulla via Ostiense, Roma s. d., pp. 16, 17, 30, 33. Per quanto riguarda i doni offerti per l’opera di ricostruzione, si rammenta che, nelle annate del Diario di Roma e delle Notizie del giorno consultate, sono inserite parecchie notizie sull’argomento e, tra l’altro, anche un lungo elenco di sottoscrittori nel quale appaiono i nomi di molti paesi del Lazio e dell’Umbria. Non sappiamo se i contributi inviati dalle amministrazioni comunali fossero il risultato d’imposizioni o di elargizioni spontanee: Su tale materia cfr. anche l’opera di Costanzi citata alla nota successiva.
(10) G. COSTANZI, L’Osservatore di Roma in tutto ciò che riguarda il morale, il disciplinare, il letterario, il diplomatico, il giudiziario, etc., condotto a rilevarne le istituzioni di pietà e ad esaminare di essa i Santuari, tomi 2, con supplementi, Roma 1825. Il supplemento da cui attingiamo – pp. 41/43 – è sicuramente stato pubblicato dopo il 1830 ma, nella copia consultata nella biblioteca dell’Archivio Capitolino, non v’è traccia della data di stampa.
(11) Tali elenchi, elaborati dallo scrivente, non sono stati ancora del tutto completati, come pure quelli relativi ai passaporti ed alle costruzioni, trasformazioni, alienazioni e donazioni del naviglio.
(12) A. CIALDI, Sul Tevere … , cit. p. 60.

Appendice documentaria
Elenco di barche censite a Grottammare (ASR, Camerlengato, s. II, tit. IX, Marina, buste varie) Nei periodi indicati il Luogotenente di porto in carica è Pietro Laureati.


Torna alla pagina precedente