Un documento inedito sulla frana del Monte delle Quaglie
avvenuta il 3 aprile 1843
in Grottammare

(L’Arancio n. 15-1996, pp. 11-13)

da M.F.De Nicolò

«Lungo la sponda dell'Adriatico dal Porto di Recanati a Pescara corre per ben 75 miglia quasi tutta piana e dritta la Strada Aprutina o Lauretana così chiamata perché mette in comunicazione cogli Stati Pontificj gli Apruzzi e da questi conduce fin sotto il colle a cui sovrasta il celebre Santuario di Loreto. Bella per molti topografici accidenti è tutta la strada ed in modo speciale quella che dal Porto S. Giorgio conduce al fiume Tronto confine dello Stato Pontificio agli Stati Napolitani la quale non manca di offrire all'occhio una gradevolissima varietà, sebene in tutta la sua lunghezza corra costantemente fra il mare che la bagna a levante e una catena di colline che la sovrasta a ponente. Imperocchè l'uniformità delle linee dalla parte del mare è tolta dalle foci di molti torrenti, fiumi e rigagnoli che vi si versano, dallo sporgere e dal rientrare delle onde che formano dove un cubito e dove un seno bellissimo a vedersi, dalla operosa e variata coltura di quei tratti di lido che, abbandonati dal mare, l'industria a poco a poco ridusse ad uno stato di meravigliosa feracità; e finalmente da diversi paesi che nati a misera condizione crebbero in ampiezza e dignità, si popolarono di genti industriose e civili, si abbellirono di fabbriche destinate alla dimora di agiati signori ed oggi offrono qual più qual meno a molte migliaia di persone un gradito e salubre soggiorno.
Dal lato opposto è per avventura più variato l'aspetto de' luoghi, ché qui continua per lungo tratto la pianura ridotta a coltivazione e vestita di vigne di pomieri e di oliveti; là senza riparo di sorta sorgono a bosco le piante degli aranci ricche dei dorati loro pomi e spargenti all'intorno l'olezzante profumo de' loro fiori; più lungi vedi ricinti di siepi altissime di lauri sempre verdeggianti, o difesi da sublimi muraglie vaghi giardini contenenti a migliaia le piante del limone del cedro, e tratto tratto ai giardini congiunti, eleganti e nobili edificj destinati alla villeggiatura di ricchi abitanti dei paesi e delle città circonvicine.
Ma delle colline, da cui dicemmo chiuso da questo lato l'orizzonte, diverso pure è l'aspetto e la natura.
Imperocchè alcune, ricoperte di terra fertile ed acconcia alla produzione, sparse si veggono di agresti abituri popolate di coltivatori e di gregge ricche di alberi e di vigneti e verdeggianti in tutto il lusso della più bella diretta vegetazione. Altre per lo contrario mostrano allo scoperto la viva roccia e gli ammassi di ghiaja di cui sono composte, e non alimentando che qualche pianta silvestre, respingono ogni cura dell'agricoltore. Ora molte, anzi la piupparte di queste si veggono manifestamente divise e dimezzate per violenti distacchi ne' passati tempi avvenuti di una parte del sasso e delle terre di cui si compongono, di che prova evidente forniscono e la configurazione attuale di esse che si pajono tagliate quasi a picco e senza inclinazione ed i molti frantumi o rottami che ingombrano le sottoposte pianure e che rispondono perfettamente dal luogo ove giacciono al luogo da cui si veggono per improvvisa violenza distaccati e caduti. E dove più poca è la distanza che separa dalle colline la sponda del mare i macigni divelti da quelle, rotolando, si spinsero fin dentro le onde marine facendo quella riva in alcuni punti irta di scogli che la rendono pericolosa ai naviganti.
De' quali scoscendimenti è forse da ricercarne la cagione nella natura di que' colli e nella copia delle acque che per entro vi serpeggiano. Imperocchè essi si veggono per la maggior parte composti da un miscuglio di ghiaja e di pietre di diversa grandezza le une sopra le altre accatastate e legate insieme da sabbia marina e da creta: per entro le quali filtrandosi in molta quantità le acque, ne tutte aprendosi facile un varco alla superficie, si creano nelle interne viscere di que' colli ampi seni e profondi bacini, che cedendo al peso delle masse sovrastanti, produssero quegli avvallamenti e quelle frane di cui ad ogni più sospinto si fanno palesi le vestigia.
Ma sibbene di cosiffatte ruine sian testimonio indubitabile le cose anzidette e dai viventi pur si ricordi quella per cui nel 1793 un vasto giardino dei Sig.i Scoccia di Grottamare fù interamente sospinto nel mare, non avvi memoria d'uomo, ne scritto documento che una rovina rammenti pari a quella che accadde nella notte di aprile prossimo decorso.
A mezzo miglio circa da Grottamare paese renduto celebre per i natali che vi sortì Sisto V, ed oggi meglio conosciuto in Italia e fuori per quel grandioso Stabilimento d'industria e di commercio che è la Raffineria dello Zuccaro, talmente si restringe lo spazio che corre dal mare alle colline che un lungo tratto della via Aprutina vedevasi tagliato alle falde di quelle e artificiosamente sorretto e difeso da robusti muraglioni contro l'impeto delle onde che addosso a quelli venivano a rompere i loro flutti. Vestita di aranci e di olivi era la sovrapposta collina, e a piccola distanza l'uno dall'altro vi si vedevano quattro casolari d'agricoltori. In molta copia da essa fluivano purissime e saluberrime le acque ond'era animata la coltura di quelle terre. Già da lungo tempo erasi osservato che sul vertice di quel colle apparivano fenditure che s'internavano a molta profondità e ponevano in qualche apprensione i possessori de' sottostanti terreni e gli abitanti delle case sovramenzionate. Crebbero i timori quando dopo le dirottissime piogge cadute nel mese di Marzo si udì narrare di smottamento e di frane in molti dei circostanti Paesi, ed anche presso la non lontana Città di Fermo. Posti pertanto in sull'avviso i poveri agricoltori che abitavano quelle casipole furono solleciti a cercare salvezza dalla fuga appena nella notte del primo di Aprile si avvidero che piccoli massi distaccati dalla sommità del monte rotolavano al basso. Men timoroso per avventura Emidio Marconi non volle seguirne l'esempio, ed improvvido del futuro, tornò a giacersi in compagnia di quattro teneri figlioli e della moglie sopra un medesimo letticciulo in una di quelle case la notte vegnente. Della quale passate appena dopo la mezza tre ore, ecco con immenso fragore, il cui rimbombo si udì a molte miglia lontano, staccarsi quasi dalle radici la metà di quel monte e giù piombar riversata sui sottoposti terreni dove trascinando con impeto dove sotterrando con violenza le piantagioni le case la pubblica strada, e spingersi a lungo e largo tratto nel mare che ritirate impetuosamente le onde cedette il luogo a quello smisurato volume, e curvandosi in vasto seno presenta oggi in quel punto l'aspetto di un Capo o di una Penisola.
Non è possibile concepire per decrizion di parole giusta l'idea del magnifico e tremendo spettacolo che offre quella ruina, la cui veduta supera di gran lunga l'aspettazione di ognuno che si faccia a contemplarla. Basti il dire che ella occupa una superficie di poco men che quattrocentomila metri quadrati. Dove prima rompeva il mare i suoi flutti ora s'inalza a molti metri sul suo livello la terra, e per cotal guisa si solleva e si abbassa in figura di collina e di valli: qua vedi aperta una voragine fra massi immensi che pajono quasi sospesi e vicini a cedere alla gravità della loro mole: là raccolte in vasto bacino le acque offrono la parvenza di un lago che restringendosi ad un tratto si unisce per piccolo ed angusto canale ad altro volume di acque in mezzo a cui vedi istmi isolette penisole. Altrove i grossi macigni che presero nel distaccarsi forme geometriche e cadendo si addossarono gli uni agli altri ti porgono la figura di una città rovesciata dal tremuoto, mentre a piccola distanza un tratto di verdeggiante pianura cinta da bella siepe d'alberi piantata di aranci irrigata da un ruscello o intramezzata da un laghetto fù lanciata dall'impeto della frana sulla superficie delle ruine a presentare l'immagine di un'oasi nel deserto. Che se ad abbracciare con la fantasia tutto l'insieme di quel grandioso spettacolo meglio piacesse sola una idea che lo rappresentasse, io direi che scorgesi in esso qualche cosa di simile al Caos da cui la onnipotente voce di Dio Creatore fece nel principio de' secoli emergere l'Universo.
Due sole vittime umane s'ebbero a piangere in questo disastro: e furono due fanciulli figli di quell'Emidio Marconi di cui sopra dicemmo. La costui casa per metà fù coperta e subissata: per l'altra metà sconnessa e sconquassata piombò sovra gl'infelici che l'abitavano. E' fù ventura che il letto in cui si giacevano i genitori e quattro loro figliuoli si trovasse appunto in questa seconda metà. Una trave obliquamente caduta e sorretta presso il suolo da lievissimi sostegni impedì che rimanessero schiacciati sotto le macerie del tetto Emidio e la sua Donna che aveva al seno due gemelli lattanti. E siano della dovuta lode rimeritati Carlo Cesarini Giuseppe Mascaretti e Filippo Lattanzi, i quali più pensosi d'altrui che di se medesimi, accorsero pronti alle grida di quegli infelici e fatti dalla carità impavidi dell'imminente pericolo, rimossa con fortunato ardire la trave, li posero in sicurezza della minacciata esistenza. Ma troppo giunse tardo il loro generoso soccorso agli altri due giovanetti che sulla opposta sponda dello stesso letto erano rimasti oppressi dalle rovine e ne furon tratti già morti e stretti insieme nell'ultimo amplesso dell'amore fraterno. Più delle umane creature avventurata una pecorella si vide sbucare di sotto ai massi caduti seguita dal suo lattante agnelletto: e fù oggetto di curiosa osservazione e di maraviglia il trovare sulle superficie di quello sconvolto terreno molti pesci anche di non mediocre grossezza lanciativi per certo dall'impeto delle onde che si sollevarono a grande altezza lorchè furono astrette a ritirarsi sotto il peso della travolta montagna. Tra i frantumi della quale, che ben occupavano lo spazio di 700 metri in larghezza si vide in men di tre giorni tracciata e resa transitabile una strada.
Durante il quale brevissimo tempo era spettacolo di curiosa novità il vedere transitar per mare carriaggi e carrozze essendosi all'uopo istituite delle barche che una all'altra congiunte a foggia di ponte levatoio e sovr'esso assicurato il carico, all'opposta sponda, vogando amendue e costeggiando la nuova penisola, conducevano.
F.Palmaroli.
»

Il testo proposto - che per quanto ci risulta è ancora inedito e, a detta dell'autore, è il primo dedicato a quella catastrofe - non richiede particolari commenti, dato che già pochi anni dopo la rovinosa frana che il 3 aprile 1843 sconvolse il Monte delle Quaglie D. Paoli e G. Bernardino Mascaretti, più interessati ad aspetti scientifici che alla cronaca dei fatti, si occuparono dell'evento in opere che hanno avuto una certa diffusione.(1)
Ignoriamo se la memoria sia stata compilata per conto di qualche corrispondente, per motivi connessi al disbrigo di cariche pubbliche o per scopi privati.
Rileviamo soltanto che il conte Filippo Palmaroli con anima poetica si abbandona alla descrizione della via Lauretana, importantissima arteria per i collegamenti tra i paesi della costa picena e tra Regno di Napoli e Stato Pontificio, si attarda ad ammirare lo spettacolo delle colture nelle campagne, ricorda Sisto V e la raffineria del conte Paccaroni prima di passare alla narrazione dei fatti con curiosità e precisione di cronista. Possiamo così finalmente conoscere chi fossero gli sventurati travolti dalla frana e i nomi dei loro soccorritori. Notizie che, forse, potrebbero essere desunte da documenti dell'Archivio Storico Comunale, tuttora difficilmente accessibile.
Egli fa uso di una scrittura elegante e, sorprendentemente per quei tempi, scevra di eccessiva punteggiatura così che la lettura riesce facile e piacevole nonostante qualche imperocchè ormai passato nel dimenticatoio.
Colpisce, tuttavia, una lacuna o dimenticanza: non si fa cenno dell'appostamento telegrafico che fu costruito in quella zona al tempo del Regno Italico e che compare nella mappa del Catasto Gregoriano.(2)
Riteniamo, comunque, che si tratti di una testimonianza immediata su un fatto luttuoso di grande rilevanza, meritevole di attenta considerazione per il messaggio che ci trasmette, la cui validità è ancora oggi immutata in considerazione dell'aggressione dirompente che l'edilizia pubblica e privata conduce da anni alle colline litoranee del Piceno.

Note
Ringrazio l'ing. Filippo Palmaroli che ha cortesemente messo a disposizione il documento compilato dal quadrisavolo, tratto dall'archivio di famiglia.
(1) - D. PAOLI, Lettera al Signor Conte Annibale Ranuzzi intorno ad alcuni slogamenti geologici, Pesaro 1848; G. B. MASCARETTI, Memoria su l'avvallamento di parte del colle detto Monte delle Quaglie, Ripatransone 1851 (ora in V. RIVOSECCHI, a c. di, Grottammare. Percorsi della memoria, Grottammare 1994, pp. 87-90. Cfr. anche A. SILVESTRO, Epidemie, cataclismi e meteorologia di Grottammare e dintorni, L'Arancio nø 13, pp. 16-18; A. SILVESTRO, Viabilità d'altri tempi nel Fermano. La strada Lauretana nel XVIII secolo, UTEFE 25.3.1993; id., La via Aprutina- Lauretana marittima tra XVIII e XIX secolo, Archeoclub di S. Benedetto del Tronto 7.4.1995.
(2) - In proposito lo scrivente ha condotto delle ricerche che troveranno spazio in un lavoro sulla marineria picena di imminente pubblicazione. Molto probabilmente la casa di E. Marconi va identificata con la sede del telegrafo.

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