Alcune considerazioni sul declino della marineria Grottammarese

(L’Arancio n. 12-1994, pp. 9-119)



La marineria di Grottammare, dopo una plurisecolare attività caratterizzata da molta vivacità e soddisfacente floridezza, secondo Mascaretti e Speranza decade e quasi scompare nei primi decenni del 1800.
Le testimonianze in proposito presentano alcune discordanze che meritano di essere approfondite anche se, a causa della mancanza di documenti certi, i risultati dell'analisi non possono essere considerati definitivi.
Mascaretti, dopo aver scritto che "buona parte della popolazione sino ab antiquo fu occupata nell'esercizio della navigazione" e che "abbiam veduto noi stessi convogli numerosi di nostre barche approdare al patrio lido cariche di ricche merci", seguita asserendo che "al presente, o sia che i rapporti commerciali sieno cambiati, o sia che i proprietari, anziché arrischiare la loro vita fra i tempestosi flutti del mare, amino meglio godere di lor fortuna nel riposo delle loro famiglie, i più ritratto il pensiero dal mare e dai navigli, sono intenti a ingrandire le loro campagne, a far fiorire l'agricoltura, e il commercio di terra".
Speranza, invece, ricorda che “oltre il commercio proprio, le navi grottesi venivano noleggiate il più sovente per il golfo, pel Mediterraneo ed anche più oltre (...) L'accennato commercio si accrebbe di più sotto il Regno italico, durante il quale ben 27 barche si numeravano di proprietà Grottese pel piccolo, ed anche alcune (i piperi) pel gran cabottaggio; e la cresciuta prosperità si dovette al blocco continentale che avea prodotto rincaro altissimo nei noli dei trasporti (...) Succeduta la restaurazione, la marina Grottese decadde per essersi la sua azione ristretta soltanto alla costa Pontificia fino al Tronto, ché il vicino Regno di Napoli, per incoraggiare l'incipiente marina Abruzzese e Pugliese, avea messo un gravissimo dazio protettore sulle navi di estera bandiera. Così, numerose famiglie marinare, insieme ad alcune della vicina Cupramarittima, che pure avea un discreto traffico, emigrarono, parte a Venezia parte nel napoletano, portando in questo il contingente della loro perizia.
Infine un marittimo grottese, Vincenzo Allessandrini, in un suo scritto afferma che "nel 1788 in questo paese vi si aritrovano una navigazione di barche 48 tra piccole e grandi, e coll'ultima guerra della Francia nel 1809 fu distrutta la nostra marina".
Sulla base di quanto è finora emerso dagli archivi, non v'è dubbio che i due storici grottesi abbiano parzialmente colto nel segno, poiché ciascuno di essi fornisce la spiegazione di un aspetto particolare di un fenomeno molto complesso.
Per quanto riguarda la distruzione della flotta grottese, in mancanza di documenti probanti, facciamo ricorso a fonti a stampa che ci permettano di ricostruire i fatti con una certa attendibilità.
Una prima fonte è rappresentata da un'opera in tredici volumi intitolata "Fasti e vicende dei popoli italiani dal 1801 al 1815, ovvero, Memorie di un ufficiale per servire alla storia militare italiana" e pubblicata tra il 1829 ed il 1838. L'autore è il Tenente Generale dell'Esercito Italiano Cesare de Laugier de Bellecour, vissuto dal 1789 al 1871. Fortunatamente per noi, le operazioni navali sono state stralciate dal testo, raccolte ed edite in tre articoli di mole non eccessiva a cura dell'Ammiraglio Ernesto Simion, cui dobbiamo la seguente osservazione: "Gran parte degli episodi narrati si riferiscono alla guerra di corsa, che nel periodo velico ebbe il suo maggiore sviluppo; altri confermano la risaputa scarsa efficacia delle linee di blocco tenute dalle navi a vela; altri, infine, dimostrano le difficoltà che nascevano quando doveva provvedersi al trasporto di truppe. La poca capacità delle navi da guerra a vela ad accogliere altro personale, oltre l'equipaggio normale, imponeva la necessità di ricorrere a numerosissime piccole navi mercantili per il trasporto delle truppe e ciò rendeva i convogli delle spedizioni poco maneggevoli e poco atti, ben spesso, a tenere il mare."
Il de Laugier ricorda che il 19 ottobre 1810 una divisione navale franco-italiana, comandata dal capitano di vascello Dubordieu, composta dalle navi Favourite, Uranie, Corona, Bellona, Carolina e dai brigantini Jena e Mercurio e con a bordo un battaglione di fanteria agli ordini del Gifflenga, partì da Ancona diretta a Lissa, dove giunse il 22 seguente.
L'isola era in effetti la principale base adriatica della flotta inglese, che aveva imposto il blocco navale ai danni della Francia e dei suoi alleati nell'allora golfo di Venezia (l'Adriatico) come in tutti i mari del mondo.
Lo sbarco delle truppe francesi avvenne con estrema facilità, in quanto a Lissa erano presenti pochissimi inglesi, addetti alla sorveglianza di numerose navi britanniche ormeggiate e di alcune navi catturate e depredate. Il Dubordieu fece incendiare gran parte del naviglio nemico ed aggregare alcune delle unità recuperate alla divisione, che prese subito la via del ritorno.
Nella sua relazione sulle operazioni svolte il comandante si esprime così: "Resulta mio signore, da questa spedizione, 62 bastimenti bruciati dei quali 43 carichi, 10 corsari (N.d.A., barche impiegate da corsari) aventi fra tutti 100 cannoni e quantità d'armi d'ogni specie ammarinati (N.d.A., catturati a seguito di arrembaggio), spediti per Lesina e condotti qui 10; restituiti a dei sudditi di S. M. (N.d.A., l'imperatore Napoleone) illirici, italiani e napoletani 14; 100 prigionieri e 25 francesi liberati, fra i quali 5 cannonieri".
Solo in apparenza il risultato fu soddisfacente, perché gl'inglesi ripresero presto il possesso dell'isola e ristabilirono il controllo sull'Adriatico, tanto che si dovette ripetere l'operazione l'anno successivo. Ma con esito fatale, perché il 13 marzo 1811, nella cosiddetta prima battaglia di Lissa, la divisione del Dubordieu venne duramente sconfitta dagli inglesi.
La seconda fonte è costituita dall'opera del Randaccio citata in bibliografia, dalla quale stralciamo il seguente passo, conservando alcune discordanze onomastiche con il de Laugier: "Le navi italiane erano soggettate all'autorità dei comandanti la squadra francese dell'Adriatico, i quali furono, l'un dopo l'altro, Dubourdieu e Barré, capitani di vascello, e Duperré, contrammiraglio. Il corsale Passano (N.d.A., di Ancona), che possedea quattro navi veliere e ben armate, Carlotta, Fortunato, Traiano ed Italia, danneggiò gravemente il commercio inglese, cui tolse undici navi (...) Addì 22 la divisione afferrò S. Giorgio di Lissa. Ivi stavano dieci corsali e 60 bastimenti mercantili inglesi. Inoltre 14 bastimenti francesi ed italiani predati da quei corsali, ma il navilio da guerra inglese che aveva a guardia il porto, se n'era dipartito testè. Onde facile fu la vittoria, ricco il bottino. Tuttavia stimando Giflenga di non potersi mantenere nell'isola, affatto indifesa, si rimbarcò, e Dubourdieu, messe a fuoco e fiamma le navi inglesi che non potea portar via, tornò in Ancona".
In ultimo facciamo ancora ricorso allo Speranza, il quale ricorda che le navi grottesi, nel periodo del blocco navale, «partivano dal paese in convogli di 10 o 12, munite di uno o due cannoni e di spingarde, e coll'equipaggio armato di partigiane, di archibugi, polvere e palle, e con esse rintuzzavano i pirati (...) A' danni dei pirati si aggiungevano anche quelli dei corsari inglesi, che taluna volta fugati e dai convogli in mare e dalle batterie in terra, spesso però raggiungevano il loro intento. Una volta una flottiglia di 12 barche veleggiante per Brindisi, abbattutasi in una nave da guerra inglese, attentossi resisterle, ma colla peggio; onde depredate le barche, ne furono sì rilasciati gli equipaggi, ma venner tradotti prigionieri a Malta, dove soffrirono anche la peste, uno Speranza, un Valori, ed altro parone, quali precipui autori della resistenza.»
Appare quindi molto probabile che tra le barche bruciate a Lissa ve ne fossero anche alcune appartenenti ad armatori di Grottammare e che la distruzione ricordata dall'Allessandrini possa essere collegata a questo episodio, avvenuto però nel 1810 e non nel 1809, nel quale anno non ci risulta che, in Adriatico, siano avvenuti fatti di particolare importanza. Non si può escludere, tuttavia, che le navi grottesi siano state catturate in altre occasioni da corsari o marinai inglesi.
Sulla base di quanto esposto finora, potremmo ricostruire le vicende del declino della marineria grottammarese in questi termini: il blocco imposto dagl'inglesi in un primo momento provoca l'incremento dell'attività navale e, successivamente, la perdita di gran parte del naviglio. Dopo la restaurazione gli armatori, per mancanza di capitali o di fiducia nella ripresa dei traffici marittimi, in parte si dedicano all'agricoltura ed al commercio terrestre, in parte emigrano all'estero, con gravi conseguenze sull'occupazione dei marittimi e degli addetti ai cantieri. Solo pochi paroni continuano a percorrere i mari, come quel Giuseppe Paci che nel 1827 trasporta da Venezia a Roma le colonne per la basilica di San Paolo.
Che manca per concludere che i fatti siano andati proprio così? Apparentemente una piccola cosa: un documento, una relazione, un memoriale. In realtà molto di più, perché va tenuto ben presente che, a meno di eventi fortunosi e fortunati, la ricerca di una testimonianza del genere può comportare mesi e mesi di ricerca in archivi italiani, inglesi, francesi, croati e forse anche austriaci.

Bibliografia
- C. RANDACCIO, Le marinerie italiane nei tempi moderni (1750-1850). Memorie storiche, Torino 1864.
- E. SIMION, Fasti navali degli Italiani dal 1801 al 1815, Rivista Marittima, gen. 1928 pp. 5-50, feb. 1928 pp. 357-387, mar. 1928 pp. 713-743.
- P. BRUNO TRIZIO, Vele del basso Adriatico. Uno sguardo al naviglio della costa pugliese nei secoli XVIII e XIX, Rivista Marittima, feb. 1994, pp. 117-134.
- V. RIVOSECCHI, a c. di, Grottammare. Percorsi della memoria, Grottammare 1994, per le citazioni di Mascaretti, Speranza ed Allessandrini.

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