I L V I N O e i P O E T I


Confesso che mi ha sempre affascinato il mito di Diòniso-Bacco per quei misteri che l'accompagnarono sin dal primo apparire nel mondo religioso dei Greci, sin dalle prime espressioni cultuali con le quali i popoli dell'antica civiltà lo onorarono come dio del vino e dell'ebbrezza. Diòniso-Bacco rappresentò l'empito primigenio che si esterna nella felicità, trova sfogo nella passionalità prima che la la ragione intervenga a infrenarla e a deviarla nella serenità apollinea. Elemento costitutivo dei cortei bacchici erano le Mènadi che, invasate, insieme ai Satiri, raggiungevano uno stato di apparente follia e libere si abbandonavano alle orge. Noi sappiamo che la bevanda originaria che si accompagnava a questi riti era il latte e non il vino. Ma con il vino il dio si identificò perchè il vino placa le ansie e dona gioie e piaceri. Bacco era Lieo o Libero, come dire dio che scioglie l'animo dall'intrigo degli affanni. Solo i malvagi, che peccano di "ybris" contro gli dèi, non meritano le grazie di Bacco. Anzi, egli li rende forsennati trascinandoli alla rovina. Ne seppe qualcosa Pènteo, re di Tebe, che osò opporsi al suo ingresso in Grecia e lo fece imprigionare. Ma Bacco, giovane, bello, sereno e sorridente, tuttavia pronto all'ira e alla vendetta, punì l'incauto re lasciandolo in balia delle Baccanti che ne fecero strazio miserando. Nel primo Stasimo della tragedia Le Baccanti, Euripide fa che il Coro delle Menadi dapprima denunci la stolta protervia dell'uomo e poi celebri i benèfici effetti del vino, dono del figlio di Zeus:
Breve è la vita. Chi mira
troppo in alto, perde
anche i doni dell'ora.
. . . . . . . . . . .
Il dio, figlio di Zeus
ha gioia d'ogni festa,
ama la Pace che dà la ricchezza.
Uguale al ricco,
Uguale al povero,
(Diòniso) dà il piacere che toglie la pena.
(traduzione di C. Diano)

Anche noi vorremmo consolarci nella grazia e nella quiete che Bacco promette a chi lo veneri nei limiti della saggezza, con l'ingenuità che assicura dagli eccessi e dalla follia. Il Romanticismo, riscoperto il dramma della vita che spasima senza esito verso la felicità, sospinse nel mondo dei sogni non realizzabili le gioie che i poeti della classicità avevano cantato come effetti goduti nei simposi. Cantava Senofane nel VI secolo a.C.:
Pulito è il pavimento, pulite
le mani dei commensali,
puliti i calici. Ecco, qualcuno
ci pone sul capo corone intrecciate;
qualche altro ci unge
con oli profumati, mentre
davanti sta il cratere
traboccante di letizia; a parte,
colma di vino, sta l'anfora
saporosa di miele, olezzante di fiori
. . . . .
Gli uomini, lieti, dapprima
inneggino a Bacco. Gli chiedano aiuto
a compiere nobili imprese.
Quindi bevano ancora e s'inebrino
ma solo al punto che, se vecchi non sono,
possano tornare a casa
senza appoggiarsi ad alcuno.
(fr. Diehl 1)

Sempre nei limiti suggeriti dalla saggezza aristocratica che informa, come si sa, l'intera silloge delle sue elegie gnomiche, un secolo più tardi Teognide di Mègara invita l'anfitrione a regolarsi nel versare il vino "dolce come il miele" nelle coppe degli invitati:
Versa, o servo, versa: non tutte
le notti càpita di gustare
tanto piacere. Però io
so godere con misura; voglio
tornare a casa e cedere al sonno
che ristora dai mali.
. . . . .
Chi supera i limiti
perde il controllo della propria lingua
e della propria mente, e parla
senza ritegno
e dice cose che fanno arrossire gli astemi.
. . . . .
Ma tu, amico, tu non la finisci di chiedere:
Versa, versa! e così bevi e bevi,
prima alla coppa comune, e subito un'altra
coppa ti sta davanti; la terza la bevi
in onore degli dèi, la quarta
l'alzi a brindare per questo e per quello.
Ma è meglio moderarsi: bello è
intrattenersi amabilmente e conversare
senza ubriacarsi, senza scadere nelle risse.
Solo così il simposio
s'illumina di gioia.
(vv. 473-493)

Non c'è che dire: un bel galateo del bevitore, questo di Teognide. Ma Alceo, il poeta di Lesbo, alza di più il gomito in simposii sfrenati. Il suo invito a godere prospetta una felicità tanto più appetibile quanto più effimera. Il richiamo alla brevità della vita, che Orazio più volte riprenderà, qui non offusca la gioia più di tanto:
Bevi, ubriàcati, o Melanippo. Forse che,
quando avrai varcato
l'Acheronte,
potrai illuminarti ancora alla luce del sole?
. . . . .
Ma non pensiamo alla morte finchè siamo
giovani. Avremo tempo di pensarci
un'altra volta.
(Diehl 73)

Alceo ama vivere e gioire: non ha il senso del limite dell'assennato Teognide:
Piove: una gran tempesta
cala giù dal cielo; il freddo
gela le correnti d'acqua.
. . . . .
E' il momento di accendere il fuoco
di bere senza freni il vino dolce
con la testa appoggiata su morbido cuscino.
(Diehl 90)

Se invece dell'inverno l'estate ferve intorno a noi, che consiglia Alceo?
Fa caldo. La Canicola
ci avvolge e fa male
al nostro corpo. Strilla
dalle foglie il grillo.
Ora le donne son più lascive, ma gli uomini
più fiacchi. La stella Sirio
secca testa e ginocchi. Allora
confortiamoci bagnando i polmoni con il vino!
(Diehl 94)

Il simposio era aspetto non secondario del costume greco. In genere consisteva in un prolungamento del banchetto festivo. Si iniziava alla fine del pasto, con una libagione di vin pretto in onore di Zeus Sotèr. Quindi si intonava il peana; si servivano miele e formaggio per eccitare la sete dei bevitori. Poi: amabili conversari, canti, musica, spettacoli di danza. Le usanze dei Romani non erano molto diverse da queste. Ambedue i popoli non conoscevano che vini di forte gradazione alcoolica. Perciò non li bevevano assoluti, bensì stemperati nell'acqua. La mistione veniva preparata nel cratere da cui si attingeva con il cìato per versare la bevanda nelle coppe. Le operazioni preliminari, che contemplavano la scelta dei vini, la quantità d'acqua con cui mescolarli, l'ora della sera (in genere le 18) in cui dare inizio alle bevute e persino le persone alle quali indirizzare i brindisi, erano demandate all'arbitrio del "simposiarca" (in latino magister convivi) eletto all'inizio del banchetto.
Queste informazioni ci permettono di capire meglio un'altra lirica di Alceo:

Beviamo!. Perchè attendiamo
che le lucerne vengano accese? Il giorno
è breve. Tira giù, amico mio,
le grandi coppe dipinte. Bacco
ha donato agli uomini il vino,
oblio delle pene. Versa, dunque!
Mescola un ciato di vino con due di acqua.
. . . . .
E una coppa spinga giù, senza tregua,
un'altra coppa.
(Diehl 96)

In ambiente più sereno, tra gente più gentile dobbiamo immaginare che si svolgano i banchetti del poeta Anacreonte. D'animo delicato, amante della tranquillità idillica, dei paesaggi ameni, uso ad una poesia leggiadra dalle forme eleganti, induce noi lettori a sospettare che i suoi carmi simposiaci siano esercizi letterari piuttosto che allusivi a banchetti realmente consumati:
Portami, o garzone, una tazza;
che io beva d'un sorso. Versa dieci parti
d'acqua e cinque di vino.
Finirò d'impazzire come le Baccanti
ma senza far male a nessuno.
Non risse rumorose, non urli
selvaggi: quest'usanza resti prerogativa
dei barbari Sciti. Noi berremo
con misura ascoltando piacevoli canti.
(Diehl 43)

Nel periodo cosiddetto alessandrino il cittadino greco si ritira dal governo della polis e si applica a migliorare le proprie personali condizioni di vita. Si sviluppa l'economia, si diffondono nuove dottrine filosofiche. Nella progredita civiltà, divenuta eminentemente urbana, si privilegiano l'industria e il commercio. Ma l'agricoltura resta l'attività primaria: si organizza meglio il lavoro servile. si costruiscono nuove attrezzature, si adottano metodi di lavoro più efficaci. Si compongono manuali di divulgazione scientifica e tecnica. Della produzione poetica di questo periodo è documento importante l'Antologia Palatina, raccolta di epigrammi di varie epoche. L'11° libro comprende componimenti conviviali, quasi per intero riferibili ad un'e tà posteriore a quella alessandrina. Migliori quelli di poeti precedenti, per esempio di Asclepìade di Samo (IV-III secolo a.C.) che canta l'amore in toni non appassionati ma delicati, venati di una malinconia appena percettibile ("Ahimé, non ho ancor a 22 anni e sono stanco di vivere"; XII, 46), Cerca anche lui consolazione nel vino:
Bevi, Asclepìade! Perchè queste lacrime?
Ma che cos'hai? Non sei tu solo preda
della spietata Cìpride, né solo
su di te Eros amaro tese l'arco
e scagliò le frecce. Perché ancora vivo
stai fra la cenere? Beviamo il succo
puro di Bacco. Così breve è il giorno!
O aspettiamo la lampada compagna
del sonno? Ma via, beviamo, disperato
amante! Tra non molto
la nostra lunga notte dormiremo.
(XII, 50; trad. S. Quasimodo)

E' il caso di osservare subito che motivi e stilemi di questa lirica si ripetono in più d'un carme del poeta latino Catullo. Più tardi anche Ligdamo, il poeta non ben identificato del Corpus Tibullianum, come Asclepìade chiede al vino l'oblio delle pene. Ma nell'immaginato stordimento dei sensi si insinua una tristezza che desta pietà. Ligdamo vuole scordare i tradimenti dell'amante Neera:
Candido Bacco . . .
Scacciami il dolore... Più d'una volta
l'amor fu vinto dal dono tuo!
Empi, caro garzone, empi le coppe
con il vino generoso. Mesci
con mano prodiga il Falerno.
(Corpus Tibullianum, III, 6)

Catullo appare più scherzoso. Tuttavia conosciamo le miserie che turbavano la sua coscienza di innamorato, il fondo di malinconia che tingeva di mestizia le sue pose di spregiudicato anticonformista:
Garzone, addetto a distribuire Falerno
di vecchia data, versane, ti prego,
nella mia coppa; e che sia
del più forte, del più aspro.
Così ha deciso Postumia,
la nostra regina del convito, Postumia
anche lei già zuppa di vino
più che non sia un acino d'uva.
Via da qui l'acqua, rovina del vino:
vada a starsene fra gli astemi.
Qui trionfa il vino schietto.
(c. XXVII)

Si badi ad un particolare. Magister convivii qui non è un uomo, come voleva il costume romano, ma una donna. E' segno che il moralismo catoniano, che voleva la donna umile e nascosta, dedita solo al governo della casa, sta tramontando. Le puellae diventano doctae, leggono Saffo, frequentano il Foro, tradiscono con disinvoltura i mariti, maneggiano e distruggono patrimoni. Le Lucrezie e le Cornelie appartengono al mondo dei ricordi, venerate ma non imitate.
Meno appassionato, più attento alla leggiadria della forma, più convinto della bontà della dottrina epicurea che predica la mesòtes, il giusto mezzo, è Orazio. Non disdegna di alzare il gomito, ma solo quando sia il caso, quando le circostanze lo richiedano e, soprattutto, nella misura che il buon senso e l'educazione suggeriscono. Il tema simposiaco si ripete nelle sue liriche a significare la voglia di serenità, di esistenza vissuta con la mente sgombra da affanni. Mai, però, che il suo invito a bere, quantunque modellato su quelli di Alceo, si sfoghi in espressioni esaltate, in formule di giubilo sfrenato:

Una tempesta orribile ha giù calato
il cielo. Piove. Nevica. Al vento del nord
il mare si scuote, la foresta risuona.
. . . . .
Forse domani il dio spingerà via queste nubi,
e noi rivedremo l'azzurro terso del cielo.
Ma intanto, o garzone, portaci del vino,
di quello che io stesso ho prodotto e versato
nell'anfora al tempo del console Torquato.
(Epodo XIII)

O Varo, non piantare altri alberi all'infuori
della vite. Il dio riserva dolori
agli astemi; nè altro rimedio
v'è agli affanni migliore del vino
purchè bevuto con moderazione.
(Odi, I, 17)

Grazie a chi ci accoglie in casa e,
a quest'ora che fa un freddo da lupi,
ci ripara. Versa, o giovane servo,
il vino nelle coppe
per onorare la luna nuova in questa notte
giunta già al mezzo. Bello è con il cìato
riempire le coppe per tre o per nove volte.
Il poeta ebbro ama i numeri dispari
perchè disparo è il numero delle Muse.
Ma le Grazie, che non amano risse,
ingiungono di non superare il numero di tre.
Comunque è bello far pazzie (insanire iuvat)
(Odi, III, 19)

L'idea della vita umana che soffre ma cerca con la saggezza di attingere la felicità, s'accompagna all'immagine del giovane che s'allieta a bere in giusta misura "sdraiato sull'erba nei giorni di festa" (Odi, II, 3) o con l'invito alle fanciulle come Leuconoe perchè, mentre filtrano vini obliosi, si godano l'oggi senza pensare al domani (Odi, I, 11).
Se mai vino pregiato abbiamo riposto
nelle anfore accuratamente sigillate
e conservate con scrupolo in cantina,
suvvia, versiamolo senza ritegno,
beviamolo adesso perchè non accada
che, dopo la nostra morte, un erede
più assennato di noi, se ne ingozzi
e lo sprechi gettandolo sul pavimento.
(Odi, II, 14)

I Romani avevano altra indole che quella svagata ed ilare dei Greci. Per questo, se è vero che molti poeti, non esclusi Tibullo, Properzio ed Ovidio, cantarono il vino che inebria, altri scrittori, poeti e prosatori, come Catone, Varrone e Virgilio, consapevoli dell'importanza che nell'economia avevano assunto le colture specializzate della vite e dell'olivo, si premurarono di insegnare ai loro contemporanei le tecniche più sicure di piantarli, di renderli fecondi e di sfruttarne i prodotti con vantaggio. Varrone indirizzò a sua moglie, proprietaria di un fondo, i consigli contenuti nel De re rustica. Vale che si legga quanto dice sulla viticoltura in genere (I, 25-26) e sulla vendemmia e pigiatura in particolare (I, 54). Profano come sono, non so se Varrone parli per sentito dire o abbia esperienza diretta di agricoltura così che gli avvertimenti che dà siano realmente utili o se, invece, si riducano ad astrazioni inattendibili. Di certo, se Varrone risuscitasse, stenterebbe a credere che il vino prodotto con le tecniche moderne, in fondo in fondo non è molto diverso da quello del suo tempo (II-I secolo a.C.):
Per capire - egli dice - dove vada piantata una vigna, bisogna attenersi ad alcuni princìpi. Se il terreno è buono ed esposto al sole, vi si deve piantare la piccola uva aminnèa - cioè di Aminnèa o Aminèa, contrada del Piceno - o le due eugenie o la minuscola rosatella. Se il suolo risulta piuttosto grasso e umido, bene vi allignano la pianta aminnea grande o la murgentina, l'apicia e la lucana. Le altre varietà, e soprattutto, fra queste, la vite che dà uva nera, vanno bene su ogni genere di terreno. (I, 25)

Il solerte agricoltore distingue l'uva da vino dall'uva da tavola. I grappoli raccolti dell'uva comune vanno portati subito nel luogo deputato alla torchiatura. Invece l'uva scelta si mette in ceste per poi riempirne piccole olle cacciate dentro botti piene di vinacce, sia per conservarla in anfore sigillate con pece e immerse in riserve d'acqua, sia per portarla al suo posto su nella dispensa. Al termine della pigiatura, si passeranno al torchio i racimoli dei grappoli con le bucce per spremerli e aggiungere nello stesso tino quel po' di mosto che ancora vi rimane. Quando dal torchio non esce più nulla, alcuni sono soliti tagliare intorno le vinacce e spremerle di nuovo. Il mosto di questa seconda spremitura si chiamacircumcisiciume lo conservano a parte perchè sa di ferro. Le bucce degli acini passate al torchio si gettano nelle botti e sopra vi si versa acqua: questo liquido ha nome lora perchè è il risultato della lavatura ("lora" per "lota" che è dalla radice di "lavare) e d'inverno si dà agli operai invece del vino.
(I, 54)


Che cosa di tutto questo sia tecnicamente accettabile, non so. Certo è che nulla o quasi nulla può somigliare alle tecniche di oggi. Ma per quel che ricordo e per quanto possono valere le mie conoscenze, qualcosa vi si potrebbe scoprire che somigli a quel che si faceva durante la mia fanciullezza. Quanto alla schifezza che veniva preparata per gli operai, beh, potrebbe essere un'anticipazione di quella che, in dialetto nostrano, chiamiamo "cifeca", in tempi non lontani riservata dai padroni ai contadini!
Scienza e tecnica agricola varroniana passarono nel De agricultura di Columella e in una sezione particolare della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, ambedue del I secolo d.C. Si legge in Columella, che di tecnica agricola senza dubbio s'intende va più e meglio di Varrone, una serie di consigli di notevole interesse. Per esempio, egli si preoccupa che, quando si voglia produrre uva da vino, si scelgano varietà buone di vitigni, sia per ottenere un vino eccellente, sia per essere certi che il legno sia robusto e quindi il vigneto duri a lungo.

Le colline - egli precisa - producono uva di gusto migliore e tra esse più feconde son quelle rivolte a tramontana, mentre vino più generoso si ricava da viti piantate in colline che guardano a mezzogiorno.

A questo punto Columella inserisce una dettagliata analisi della vite detta aminnèa, lodata anche da Catone e, come abbiam visto, da Varrone. Era una qualità importata dalla Tessaglia e trapiantata nel Sud d'Italia e nel Piceno. Tutto il discorso si conclude con questa significativa considerazione:

I tecnici agricoli devono convincersi che il tornaconto della viticoltura è grandissimo:
Studiosi agricolationis docendi sunt uberrimum esse redditum vinearum.

E' così ancora oggi? Potranno dirlo i produttori e gli studiosi che sono presenti qui. Aggiungo, per informazione, che al di là della riconosciuta competenza tecnica di Columella e del tono distaccato delle sue considerazioni, nel trattato affiora più d'una volta la preoccupazione di un "innamorato" della terra. Può capitare, pertanto, di leggervi brani "poetici" come questo che accenna alle diverse funzioni di ciascuna parte strutturale della vite:
Alle viti la natura diede prima le radici, come per darle le fondamenta, per sostenerla così come ha fatto per l'uomo dandogli i piedi; poi sovrappose il tronco che corrisponde al nostro corpo, e intorno diffuse i tralci che son come le braccia, e i pampani che sono le mani, e dei tralci alcuni rese fecondi, altri rivestì solo di foglie perchè servissero a proteggere i grappoli.
(III, 10, 9)


Tuttavia i casi in cui il discorso si eleva di tono sono rari. Columella intende soprattutto portare giovamento alle sorti dell'agricoltura italica che vede in crisi paurosa nel suo tempo. Vuole che la gente lasci la città e torni ai campi perchè chi vive una vita facile e divertita entro le mura è meno resistente di chi sta a lavorare la terra.
Columella era un ammiratore di Virgilio che fu, come si sa, poeta sommo dell'agricoltura nelle Georgiche. Il libro II di questo ineguagliabile poemetto è consacrato alle colture arboree, compresa la coltura della vite. Può interessare quanto vi si dice sui metodi da adottare per la moltiplicazione delle piante, in particolare delle viti che rinascono dalle propaggini.
Dopo questi studiosi latini del primo Impero non ci furono, fino a Medioevo inoltrato, se non sporadici interventi di studiosi che ripeterono punto per punto quanto i classici avevano spiegato. Che possiamo aspettarci da Seneca il quale nelle Naturales quaestiones non prova disagio a raccontare che la caduta di un fulmine provoca lo sfascio della botte ma condensa per tre giorni il vino ivi travasato? Non è la stessa sciocchezza accolta da Plinio e da Lucrezio che credono il contrario, cioè che il vino fuoriesce mentre la botte resta intatta? Niente poteva dirsi di nuovo in un tipo di agricoltura che non cercava metodologie nuove nè si premurava di migliorare gli strumenti di lavoro, tanto meno badava a rendere più produttivi i terreni abbandonando il sistema del maggese per adottare il riposo pascolativo. Però all'inizio del secondo Millennio, passato l'incubo della fine del mondo, rinata la voglia di vivere e di fare, la gente torna a lavorare i campi mirando a migliorare la produzione per migliorare le condizioni di vita e rinnovare l'organizzazione sociale.
E' da pensare che nell'Alto Medioevo, quando San Colombano raccomandava ai suoi monaci di "mangiare solo radici, legumi, poltiglia di farina e un semplice biscotto, per evitare che il ventre si appesantisse e lo spirito ne venisse fiaccato", le crapule e le sbevazzate fossero solo un ricordo. E invece no. Uno studioso ha calcolato che, poco oltre quell'età, un monaco consumava in media 1 kilo e 700 grammi di pane al giorno (le monache di clausura 1 kilo e 400), 1 litro e mezzo di vino (o birra), quasi 1 etto di formaggio, una purea di lenticchie e di ceci: insomma un pranzo di circa 6.000 calorie, il doppio di quanto oggi si ritiene che basti ad un uomo di vita normale. Naturalmente il menù s'arricchiva e le porzioni si ingrossavano nei giorni di festa quando, per fare un esempio, il vino arrivava a 3 litri giornalieri.
Appartiene ad un particolare momento della storia europea il fenomeno dei clerici vagantes, studenti universitari che si abbandonavano al vagabondaggio, alle gozzoviglie, agli amori. Essi furono gli autori dei Carmina Burana, canti goliardici, molti anche satirici, scritti in un latino più o meno volgarizzato o anche in tedesco. Per contenuto e per forma - che spesso è parodia di quella degli inni religiosi - sono un documento importante della progressiva laicizzazione dei costumi. Vien voglia di leggere quelli che celebrano la vita spensierata, lodano le taverne e l'ebbrezza procurata dal vino:

Ave color vini clari,
ave sapor sine pari,
tua nos inebriari
digneris potentia.
. . . . .
In taberna quando sumus
non curamus quid sit humus,
sed ad ludum properamus.
. . . . .
Bibit hera (la padrona), bibit herus (il padrone),
bibit miles, bibit clerus!
Bibit ille, bibit illa,
bibit servus cum ancilla.
. . . . .

Ma perchè proseguire? Tutti conoscono quest'inno sfrenato al vino, all'amore, alla giovinezza a cui Carl Orf ha prestato note e sceneggiatura di grande effetto.
Di ben altra natura, si badi, fu la voglia di bere espressa dal poeta Torquato Tasso che affogava nel vino la propria immedicabile malinconia. Nel suo dialogo Il padre di famiglia si colgono prove della sua precisa conoscenza dei vari tipi di vino. Dice:

Le malvagie tutte hanno alquanto del dolce,
la qual dolcezza si perde con la vecchiaia,
onde si legge (in Catullo): inger mi calices
amariores, non perché il poeta desiderasse il
vino amaro, ma perché il vino vecchio,
perdendo la dolcezza, acquista quella forza
che egli chiama amaritudine.


Per altro, in Il Messaggero, il poeta di Sorrento apertamente confessa:
Comecché io non nieghi di essere folle,
mi giova nondimeno credere che la mia follia
sia cagionata o da ubriachezza o da amore;
perché so ben, ed in ciò non mi inganno,
che soverchiamente io bevo.


Il Leopardi ebbe a ricordare questa debolezza del Tasso nell'"operetta morale" Dialogo del Tasso e del suo Genio. Vi immagina che l'autore della "Gerusalemme Liberata", vittima della noia nella solitudine dell'ospedale-carcere di Sant'Anna, chieda: "Acciò d'ora innanzi, o Genio, io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare". E il Genio: "Ancora non l'hai conosciuto? In qualche liquore generoso". Si può capire il senso di questo dialogo ricordando che in un'altra "operetta", intitolata Elogio degli uccelli, il poeta recanatese sostiene che l'uomo ride solo quando è pazzo o quando è ubriaco! Di certo non andremo a cercare nei suoi Canti allusioni al vino. Eppure sappiamo che egli non disdegnava berne. Leggiamo nello Zibaldone:
Il vino è il più certo, e (senza paragone) il più efficace consolatore.
(14 novembre 1820)
Il vino (ed anche il tabacco e simili cose) e tutto ciò che produce uno straordinario vigore o del corpo tutto o della testa, non pur giova all'immaginazione, ma eziandio all'intelletto, ed all'ingegno generalmente, alla facoltà di ragionare, di pensare e di trovar delle verità ragionando (come ho provato più volte per esperienza), all'inventiva, ecc.
(29 settembre 1923)
Il vino, il cibo, ecc., dà talvolta una straordinaria vivacità, rapidità, facilità, fecondità d'idee, di ragionare, d'immaginare, di motti, d'arguzie..., facilità di vedere i più lontani e sfuggevoli rapporti, e di passare rapidamente dall'uno all'altro senza perderne il filo, volubilità somma di mente, ecc.
(14 Novembre 1823)
E sentite quest'ultima osservazione:
Dicono che, volendo ottenere dalle donne quei favori che si desiderano, giova prima il ber vino ad oggetto di rendersi coraggioso, non curante, pensar poco alle conseguenze, e se non altro brillare nella compagnia coi vantaggi della disinvoltura...
(13 Gennaio 1821)

Chi avrebbe mai pensato di trovare proprio nel Leopardi un cantore così entusiasta delle doti del vino? Ma forse il Leopardi, così sconsolato e amareggiato della vita, poteva più di altri sentirsi attratto dalla bevanda che dà l'oblio e consola.
Quanta mestizia in tutto questo! Quanta gioia, invece, nel Ditirambo di Bacco in Toscana di Francesco Redi, scrittore del '600. Il ditirambo era assurto, fra i Greci, ai livelli d'un'arte prestigiosa ad opera dei poeti corali Pindaro e Bacchilide. In origine era stato un elemento del culto dionisiaco e da qui passato a formare il coro delle tragedie. Il Redi era uno di quegli studiosi del Seicento che si dedicarono alle scienze naturali adottando nelle ricerche il metodo sperimentale, non senza forti reazioni da parte della Chiesa (ne seppe qualcosa Galileo). Era convinto che l'attenzione dello scienziato naturalista non dovesse limitarsi alle sue materie specifiche, ma applicarsi allo studio di tutte le branche del sapere. E sapete in che cosa egli identificava il lato estetico e sociale della vita umana al quale, appunto, lo scienziato non deve chiudersi? Al vino:

Quanto errando, oh, quanto va
nel cercar la verità
chi dal vin lungi si sta!


Pare che il Redi fosse astemio. Ciò indurrebbe ad apprezzare di più - come risultato di un attento spirito di osservazione e di un'analisi scientifica scrupolosa - la straordinaria descrizione che egli fa, nel Ditirambo, della sbornia di Bacco accompagnato in corteo dall'amata Arianna, dalle Mènadi e dai Satiri. Ma c'è di più. Il Redi studiò a lungo e più volte rielaborò il testo, variò le soluzioni tecniche dei versi che dispose con una ricchezza di ritmi, di rime e di estensione da mostrarli più vicini alle complesse partiture musicali barocche che non agli schemi della metrica tradizionale. Ecco il brano che ritrae il progressivo ubriacarsi di Bacco al quale escono di bocca, si direbbe con tutta naturalezza, le lodi del vino e, di conseguenza, il vituperio dell'acqua:
Chi l'acqua beve
mai non riceve
grazie da me.
Sia pur l'acqua o bianca o fresca,
o ne' tonfani sia bruna,
nel suo amor me non invèsca.


E giù altre imprecazioni contro l'acqua che si ingrossa nei fiumi, abbatte i ponti, rompe gli argini e dilaga nei campi rovinando i coltivi; contro le limonate, contro i sorbetti degni di "femmine oziose"... Forse oggi il Redi se la prenderebbe con la Coca-Cola e gli altri intrugli di sciroppi! Ma ecco che a Bacco comincia a girare la testa:
Quali strani capogiri
d'improvviso mi fan guerra?
Parmi proprio che la terra
sotto i piè mi si raggiri
Ma se la terra comincia a tremare
e traballando minaccia disastri,
lascio la terra, mi salvo nel mare.
Così s'imbarca con Arianna e con gli altri del seguito. La prima ebbrezza suggerisce toni di gioia, sensi di vita e di moto:
Su voghiamo,
navighiamo,
navighiamo infino a Brindisi:

Poi la lingua pare impicciarsi nella bocca:

Arianna, brindis, brindis.
Passavoga, arranca, arranca.
. . . . .
Ora la sbornia si fa elegiaca, dà sul patetico:

Ariannuccia vaguccia, belluccia,
cantami un poco, e ricantami tu
sulla mandola la cuccurucù,
la cuccurucù,
la cuccurucù,
sulla mandola la cuccurucù.


Per inciso vorrei notare l'istintivo accenno alla città di Brindisi evocata per la casuale omofonia con il brindisi che si fa nelle bevute. In realtà quest'ultimo brindisi deriva dalla lettura prima spagnolizzata e poi italianizzata di una formula di augurio che pronunciavano i lanzinechecchi, sì proprio quelli che, per dirla con il Manzoni, insegnavano la pudicizia alle fanciulle lombarde!: Bring dir's, che voleva dire: "Lo porto a te", s'intende il bicchiere colmo di vino.

Se strana ci pare la filastrocca del Bacco rediano, strane non sono le annotazioni scientifiche di un altro noto naturalista del '600, Daniello Bartoli. In un linguaggio baroccheggiante che qui non disturba, il Bartoli così descrive la vite:

Sian per tutti le uve, giacché elle, e la lor madre la vite, furon degnate da' santi Padri di particolar considerazione oltre ad ogni altra pianta e frutto. Ella, perciocché ad acconciarsi come altri vuole, o in pergole, o in pancate, o ne' terreni asciutti, bassa, o negli umidi alzata lungi dal soverchio umore, dovea esser non rigida, ma flessibile, e perciò non possente a reggersi per sé medesima in piedi, supplisce ciò con l'industria, et claviculis quasi manibus, ciò che tocca afferra, e con essi per sé stessa s'aggrappa, e rampica su per gli altissimi tronchi, e fino alle come degli arbori; innocente, però, e per dar ella il suo, non per toglier l'altrui, come l'ellere (le edere) ingrate che fan radice de' rami, e smungono, e disseccan la pianta a cui s'attorcigliano.
(da"La ricreazione del Savio")

Com'era gradevole il linguaggio degli scienziati di una volta! E par che dall'ultima annotazione del Bartoli traesse ispirazione il poeta Giacomo Zanella per la sua lirica L'alloro e la vie, ovvero "Egoismo e carità". E il Bartoli ancora così descrive, anzi dipinge, un grappolo d'uva:
Parmi vedere pendente da un vivo e vigoroso tralcio di vite un grande e bel grappolo d'uva, ma diversamente condizionato; perocché parte sul farsi, parte sul crescere, parte sul maturare. Perciò dei suoi acini, altri siccome ancora in agresto, verdeggiano, piccioli e duri; altri più grandicelli cominciano a risentirsi, a tignersi, e prendere un po' di colore; altri già in tutto rosseggiano, e come più o meno vermigli, così più o meno s'accostano a maturità; altri finalmente son perfetti, e perciò neri, morbidi, grandi, sugosi. Or tutti essi del pari, come bambini che lattano, stannosi con le bocche ristrette a' picciuoli del raspo, e n'attraggono e ne succian l'umore onde s'empiono.
(idem)

Usciamo per un attimo dai confini d'Italia per leggere alcune strofe di una lirica del poeta barocco tedesco Martin Opitz, Lebenslust, "Gioia di vivere", in cui è scordata la teutonica cervogia, cioè la birra:
Olà, giovinetto, va' e chiedi
dove può esser la miglior bevanda,
prendi l'orcio e versa il vino!
Tutti i dolori, lamenti e guai
che noi uomini abbiamo ognidì,
prima che Cloto ci porti via
voglio affondarli nel dolce succo
che ci dà la vite

Compera anche dei meloni
e non scordarti lo zucchero;
bada ben che nulla manchi.
. . . . .
Invito i miei buoni fratelli
alla musica e ad un bicchiere.
Niente, parmi, si convien meglio,
che una bevuta e buoni canti.
E se non lascio molto in eredità.
ebbene, ho il nobile vino:
ch'io faccia allegria con altri,
anche se tosto debba morir solo.


C'è chi bisbiglia: Ma del nostro Carducci che n'è? Ci si scorda forse del poeta che molto apprezzò e molto cantò il vino? No. Ecco di lui una lirica esemplare, dal titolo inequivocabile: Brindisi:
Evoe, Lieo: tu gli animi
apri, e la speme accendi.
Evoe, Lieo: ne' calici
fuma, gorgoglia e splendi.

Tenti le noie assidue
coi vin d'ogni terreno
e l'irrompente nausea
freni con l'acre Reno.

Chi ne le cene pallide
cambia le genti e merca
e dai traditi popoli
oro ed infamia cerca:

A noi conforti l'anime
pur contro a' fati pronte
il vin de' colli italici
ove regnò Tarconte (cioè il vino dei colli toscani).
. . . . .
(da "Iuvenilia")

E per ultimo affidiamoci al poeta ermetico Libero De Libero:
Bevo, e tu, luna compagna, mi dai l'ombra
e a bere il nostro vino siamo in tre,
a goderci nel breve recinto.
Ma presto tu, luna, anneghi nel bosco,
strappandomi l'ombra dalle spalle,
e il brindisi si chiude del convegno.
Piangere dovresti tu (luna, non tu)
che mi vuoi senz'ombra e senza luna.
(da "Romanzo")

Ci spiace che il poeta sia triste, che il suo brindisi sia spoglio d'allegrezza.
A noi piace bere in compagnia aperta e serena, alla luce del sole in questa nostra ridente Città del vino!

Ripatransone, 20 novembre 1994
prof. EMIDIO DILETTI

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