OPPOSIZIONE V


Sull'Elvino. Secondo quanto riferisce lo scrittore latino Plinio il Vecchio, nella sua "Naturalis Historia", l'Elvino sarebbe un fiume che divide la regione Pretuziana dal Picento, posto a nord subito dopo il fiume Tesino. In verità questo frammento è di dubbia certezza, in quanto alcuni codici dell'opera pliniana mancano di menzionare questo "fiume". Nei secoli passati alcuni studiosi hanno tentato di identificare questo corso d'acqua, chi localizzandolo in Abruzzo, chi riconoscendolo nel Tesino (Colucci); altri, come lo Speranza, nel torrente Sant'Egidio di Marano. Il Mommsen lo individuò nel rigo dell'Acquarossa, ubicato a nord dell'abitato di Grottammare, basandosi solo con l'omonimia del nome, da elvino = rosso (sic!). Chi accettò a braccia aperte quest'ultima ipotesi furono l'Alfieri e il Mostardi. Secondo costoro, l'omonimia del nome sarebbe certamente fondata dal colore delle acque rosse che il torrente appunto emette (sic!!): "L'identificazione del Mommsen è la più fondata sotto ogni aspetto, anche perché la caratteristica di una colorazione dell'acqua, che reca necessariamente con sé il moderno Acquarossa, è dichiarato anche dall'antico nome Helvinum". Quella delle acque rosse del rigo, che addirittura tingevano di questo colore il mare (Mostardi, pag. XXIX dell'Introduzione del volume Cupra) segna la fase estrema delle fantasie che hanno caratterizzato questa ipotesi. L'unica acqua rossa che si può avvertire in questo rigo - o per lo meno rossastra, come riferisce il Mostradi - è forse quando qualche colono, sofferente di una malattia renale, vi si apparta per i suoi irrevocabili bisogni fisiologici. Credo assai improbabile che gli antichi romani abbiano fatto di un simile rigo privo di acqua e lungo appena 4 chilometri - come appunto è quello dell'Acquarossa - uno strumento di confine amministrativo fra due territori.
Sui circhi, sui teatri e sugli anfiteatri di Cupra Maritima. Nel 1741 il Paciaudi sosteneva che nei pressi del "monte di Agnesia", poco a sud della Civita, un rudere chiamato carceri, presumeva l'esistenza di un circo.
Sebbene anche Colucci, pur dotato di una certa immaginazione, non credesse a simili fantasie, vi fu il Mostardi che afferrò la palla al balzo e ne narrò la storia sul suo volume Cupra (pp. 140-141). In studi più recenti di altri "autori cuprensi", vedo pubblicate alcune ricostruzioni della città romana completa di teatro ed anfiteatro. In verità, alcune antiche città romane del piceno, erano dotate di strutture sportive e ricreative, come Falerone, Ascoli Piceno, Urbisaglia, costruzioni che ancora oggi possono essere ammirate nella loro superba bellezza. Alla Civita di Marano, al contrario, nulla, nemmeno un mattone segnala oggi l'esistenza di queste presunte costruzioni. Piuttosto di segnalare simili edifici, sarebbe opportuno per gli "autori cuprensi" prima trovarli, a patto che esistano.
Sul promontorio di Cupra. Secondo il Mostardi, il grande promontorio descritto dal geografo greco Claudio Tolomeo era ubicato a Cupra Marittima (p. XXVII dell'introduzione del volume Cupra) - dove? - ma, continua il monaco, le antiche frane e le erosioni marine lo hanno notevolmente ridimensionato (sic!). Sarebbe opportuno non fidarsi ciecamente di Tolomeo, altrimenti oggi il Sole ed i pianeti ruoterebbero ancora intorno alla Terra. Eppure, l'unico promontorio della zona - se così lo vogliamo chiamare - che ancora oggi si riesce a scorgere è quello di Grottammare, l'unico anche segnalato dalle antiche carte topografiche del Seicento e Settecento, come quella di Ferdinando Marsili. Ricordo inoltre, che nella linea di costa posta tra i fiumi Tenna e Tronto, le più grandi frane documentate nei tempi passati si sono verificate nella zona di Grottammare e non a Marano.
Sulle pergamene cuprensi. Secondo il Mostardi, l'Archivio Parrocchiale di Cupra Marittima e quello Municipale possedevano un tempo un cospicuo patrimonio consistente in antiche pergamene, ma oggi esse sono o disperse o rubate. Lo stesso dicasi per gli antichissimi documenti copiati nel 1494 dal pievano Bartolomeo Brancadoro, attinenti le iscrizioni sepolcrali di San Basso e la venuta dei Benedettini di Farfa a Marano (vedi opposizioni VI-VII). Come abbia fatto il Mostardi a ricostruire così minuziosamente la storia di Marano, visto che tali documenti sono scomparsi, rimane tuttora un mistero!
Alceo Speranza un volgare tombarolo? Alle pagine 63-64 del volume Cupra, il Mostardi parlando di certi scavi di tombe avvenuti nell'agro cuprense, sottolinea con dolore la scomparsa clandestina di numerosi reperti archeologici, recando quindi un grave danno culturale, scientifico e turistico al paese di Cupra Marittima. Il monaco continua dicendo che "nel dicembre del 1933 lo Speranza (Alceo), insieme ad un rabdomante, si è recato nella zona di Sant'Andrea per effettuarvi un assaggio di scavo. I rurali onesti avvisino chi di dovere degli eventuali ritrovamenti e consegnino tutti i reperti al museo di Cupra Marittima".
Innanzitutto è bene dire che molti reperti piceni, che oggi fanno bella mostra nei musei archeologici di Cupra Marittima, Ripatransone ed Ancona, furono trovati in tombe scavate nel territorio di Grottammare (San Paterniano), ma soprattutto voglio sottolineare che il triste aneddoto narrato dal Mostardi per screditare la figura di Alceo Speranza, oltre ad essere fuori luogo e privo di fondamento è anche di cattivo gusto. L'On. Alceo Speranza fu una delle figure che più si prodigò per la continuità degli scavi cuprensi. I maranesi dovrebbero essere grati allo Speranza in quanto fu grazie alla sua intercessione verso gli "alti gradini del potere" che il Comune di Cupramarittima ottenne un sussidio ministeriale per continuare gli scavi .

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