OPPOSIZIONI
AL TEMPIO DI CVPRA DI MARANO
AL SVO FAMOSO PORTO
ET ALLA SVA VETVSTISSIMA CHIESA
DI SAN BASSO
ET AD ALTRE NOTEVOLI COSE

ILLVSTRATE
NEL VOLVME "CVPRA"
DALL'ERVDITO SIG. BENEDETTINO
BERNARDO FAVSTINO MOSTARDI
ET
DA ALTRI ECCELLENTI SCRITTORI

RILEVATE E DATE IN LUCE
DA FRA CIPRIANO DA GUBBIO
(ANONIMUS EUGUVINUS)

 
fra Cipriano
Premessa di fra CIPRIANO
Se per avventura alcun di voi si meravigliasse, eruditissimi signori, perché mai dopo le immortali opere storiche realizzate dagli eminenti Paciaudi, Colucci, Strafforello, Mostardi, e da altri assaissimi eccellenti scrittori a noi tramandate, sia necessario stendere uno studio che confuti tutti quegli argomenti illustrati da questi autorevoli, e rimuova con un ferro da stiro quelle anomali pieghe riscontrate sul tessuto della storia, il lettore facilmente intenderà non essere né inutile, né temeraria questa impresa; raccomando soltanto che l'animo non avverso senta le ragioni di questo consiglio, le quali, essendo gravissime, io vi prego di volerle benignamente ricevere, e pesare, ed esaminare.
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Se leggiamo alcune opere di storia locale pubblicate negli ultimi lustri, quelle appunto che trattano dei comuni del Piceno, rimaniamo stupiti nel constatare l'eccezionale vigore intellettuale con cui gli autori descrivono le vicende storiche ed economiche degli insediamenti urbani; tutti cercando di dimostrare, e non a torto, con documenti, prove archeologiche od altro, quegli indizi preromani, romani o medievali che confermerebbero il prestigio della stessa cittadina. Ma ciò che colpisce maggiormente di questa non disprezzabile cultura di provincia è che parallelamente opera un gruppetto di letterati, i quali, pur privi di materiale documentario o di certezze archeologiche, insistono nel narrare, tra il vago e l'assoluto, la storia e la grandezza della loro patria o della patria altrui, riuscendo con eccellente capacità a raggiungere nei loro lavori quella meta che avevano tentato di evitare: esaltare esclusivamente le qualità negative dell'approssimazione e della congettura, nemiche mortali della storia. Codesti autori non fanno altro che perpetuare gli errori e le manipolazioni dei loro cattivi maestri, i quali maestri, senza modestia e senza diritto alcuno, si appropriarono con mirabili astuzie quelle patrie memorie e glorie altrui, per avvalorare nei loro libri le più assurde e strane fantasie.
Pensiamo, per un istante, di quali infelici ipotesi siano infarcite, di norma, quelle "opere" scritte da alcuni particolari autori, i quali possiamo generalmente definire "Cuprensi". Quelle opere, per esempio, che, con arroganza storica e senza fornire prove, collocano nel territorio di Cupramarittima-Marano i ruderi del famoso tempio della dea Cupra; e come di volta in volta i loro autori tentino con ostinazione di convincere i lettori sulle loro inverosimili teorie illustrate. Occorre vagliare attentamente, come sotto un microscopio, i concetti fondamentali che costituiscono i loro scritti, per poter comprendere pienamente la reale consistenza di questi aborti della letteratura storica, e poter definire una volta per tutte tali opere "spazzatura".
Ficta omnia celeriter, tamquam flosculi, decidunt,
nec simulatum potest quidquam esse diuturnum
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OPPOSIZIONE I


Sull'origine della questione del tempio di Cupra, sulle "opposizioni geometriche" dell'abate Giuseppe Colucci, sulla trappola tesa dall'abate Giambattista Tondini da Brisighella.
Sul finire del secolo Decimo ottavo, l'abate Giuseppe Colucci (1752-1809), forse più amante della gloria letteraria che della verità storica, compilò una voluminosa opera intitolata "Antichità Picene" nella quale, in parte indagando, in parte obbiettando ed in parte fantasticando, trattò di storia e di archeologia picena, romana e medievale. Fra tutti gli argomenti trattati dall'abate ve ne sono due che rivestono particolare importanza e che diverranno quasi un assunto di tutta la sua opera: la confutazione di Grottammare quale antica Cupra Marittima, e quella sull'ubicazione del tempio della Dea Cupra, santuario nazionale degli antichi Piceni. In tal modo, il dotto abate si fece il paladino di quella nuova verità storica che ancora oggi è sventolata dai suoi discepoli come un assioma. Tuttavia, "tali verità", non scaturirono dall'illuminata mente dell'abate, ma da colui che potremmo definire il padre di tutte le confusioni cuprensi: il prete piemontese Paolo Maria Paciaudi (1710-1785). Costui, durante il breve periodo in cui visse a Ripatransone svolgendo il suo ministero, scrisse una storia ripana nella quale affrontava anche lo studio sull'ubicazione dell'antica città romana di Cupra. Egli affermava che tutti gli storici a lui precedenti (Giovanni Garzoni, Leandro Alberti, Luca Olstenio, ecc.) avevano sbagliato "... nel riporre l'antica Cupra Marittima in certo luogo detto Grotte a Mare, ove non è, ne mai trovossi vestigio di antico edifizio". Se è bene dire che nei tempi in cui il Paciaudi scriveva, forse nessun rudere era effettivamente visibile nella zona di Grottammare, egli, pur ingegno profondo, non fece alcun tipo di indagine archeologica su quel territorio, né considerò i motivi storici e culturali per i quali gli antichi autori situavano il tempio e il sito di Cupra Marittima in quel luogo. L'opera, inoltre, portata a termine in poco tempo, è zeppa di errori di trascrizione ed imprecisioni, tanto che lo stesso Paciaudi, riconoscendo i limiti del suo lavoro, si ripropose una correzione o addirittura un rifacimento .
Dalla "certezze" germogliate dagli studi del Paciaudi, l'abate Colucci vi colse i frutti e mosse i suoi passi. Egli scrisse che il tempio pagano non sarebbe stato costruito e quindi restaurato nei pressi della chiesa-abbazia di San Martino, ma a circa cinque chilometri a nord, nell'attuale territorio di Cupramarittima-Marano, in una contrada detta La Civita, vicino al fiume Menocchia, dove nel tempo in cui egli scriveva, venivano alla luce per opera del pievano Antonio Trenta alcuni ruderi di epoca romana. Il Colucci non tardò ad identificare il luogo come quello dell'antica Cupra Maritima romana, ed alcuni avanzi rinvenuti, come quelli del santuario della dea Cupra. In effetti tale sito archeologico, ritenuto oggi fra i più importanti dell'intera costa picena, è realmente quello dell'antico insediamento romano, senza però esagerazioni e fantasticherie scritte negli ultimi anni, come più tardi vedremo; ma ritorniamo al nostro tempio.
Inconfutabili prove archeologiche, reperti di vario genere, fonti storiche antiche, studi recenti, nonché una solida tradizione, indicano questo nei ruderi antistanti la chiesa di San Martino di Grottammare. L'inoppugnabile prova, quella che maggiormente ha suscitato, suscita tuttora e susciterà per sempre il furore letterario degli "autori cuprensi", è collocata da sempre all'interno della stessa chiesa: è un'epigrafe romana che riferisce il restauro (o la ricostruzione ex novo) del tempio da parte dell'imperatore Adriano.
Lo scopo ultimo del Colucci non era quello di affrontare uno studio storico sulla questione, ma confutare soltanto l'esistenza del tempio a San Martino di Grottammare e quindi la presenza stessa della lapide adrianea al suo interno. Con dimostrazioni forzate e ridicole prove, che non esita a definire "geometriche" - ma ancora oggi ritenute valide da alcuni - affermò che il tempio non era ubicato nei pressi della chiesa perché in quel luogo era assente una città, e che quindi la lapide di Adriano vi fosse stata trasportata da alcuni dotti monaci, i quali probabilmente l'avevano acquistata a Marano (sic!): "Quanto ridicola, e ingiuriosa insieme sia questa supposizione, di leggieri si concepisce". A nulla valsero le segnalazioni del Polidori scritte in un opuscolo ; quando costui gli descrisse alcuni importanti reperti e gli riferì recenti scoperte di ruderi, il Colucci, dopo aver compiuto alcuni sopralluoghi nei pressi di San Martino (in verità assai dubbi), dall'alto del suo scanno decretò che qualsiasi rudere esistente o reperto rinvenuto nei pressi di San Martino non fosse bastato a collocare il tempio in quel sito. Sono d'accordo con il Polidori quando afferma che il Colucci "... nelle numerose visite non abbia oltrepassato Marano dalla parte del Mezzogiorno, ma unicamente affidato agli altrui rapporti". Con queste "poderosissime ragioni" egli concluse che i ruderi ritrovati dal pievano Trenta alla Civita di Marano fossero quelli del noto tempio; in realtà essi appartenevano ad una curia o basilica, come sarà accertato dagli archeologi moderni . Altra "poderosissima ragione" pronunciata dal Colucci, è quella di aver considerato i templi esclusivamente come santuari urbani, cioè localizzati dentro le città, quando invece numerosi scrittori latini ci rivelano il contrario, come giustamente rilevò Antonio Vicione. La più antica testimonianza del tempio di Cupra risale ad un autore classico dell'età augustèa, il geografo greco Strabone, il quale, sebbene non ci abbia dato un'indicazione esatta per localizzare il santuario, ci segnala il suo isolamento. In un passo della sua "geografia", così dice: "... Vicino ad essa c'è la città di Auximum, a breve distanza dal mare. Poi vengono Septempeda, Pneuentia, Potentia, Firmum Picenum e il porto di quest'ultima, Castellum. Segue poi il santuario di Cupra, fondato e costruito dai Tirreni: essi chiamano Era con il nome di Cupra; poi c'è il fiume Truentus e la città da cui prende il nome, poi Castrum Novum..." . Come possiamo constatare, il santuario, l'unico menzionato dallo storico su tutta la costa adriatica, non è associato a nessuna città, sottolineando quindi il suo carattere extra-urbano. Questa caratteristica, Strabone la sottolinea anche per l'altro noto santuario da lui menzionato nella costa tirrenica: quello di Pyrgi. Oltretutto, ricordo, che nell'elencare le città picene, lo storico greco non nomina Cupra Maritima, forse perché in quel periodo ancora non fondata o perché modestissimo borgo o, più probabilmente, perché ancora "curtis di coloni romani" cioè una semplice fattoria. L'opera del Colucci è oggi reputata come una summa della storia del Piceno e il suo autore, in parte, più o meno attendibile. In verità all'epoca della pubblicazione, forti furono le polemiche che riguardarono molte delle sue conclusioni, ed i suoi volumi ebbero fortuna principalmente per l'intercessione diretta di papa Pio VI, il quale, con un chirografo, ordinava ad ogni città delle Marche l'acquisto dell'opera. Oltre al già ricordato Polidori, che gli contestò in modo ineccepibile l'ubicazione del tempio della dea Cupra, altri furono gli oppositori che dissentirono sulle conclusioni di alcuni argomenti trattati nelle sue "Antichità Picene": tra questi ricordiamo l'ascolano Luigi Ferri per gli "Atti di Sant'Emidio", ritenuti non autentici dall'abate, Carlo Santini per le memorie storiche di Tolentino, Filippo Vecchietti per la storia patria di Osimo. Il Colucci nella sua introduzione lamentava questo dissenso, scrivendo che ciò era frutto di malevolenze ed incomprensioni. Tuttavia gli studiosi gli contestavano la sua superficiale ricerca storica ed archeologica, spesso condotta non direttamente "in loco" ma con l'aiuto di intermediari: "...Tanti Scrittori, che, affidati agli altrui rapporti, hanno presi de' grossi strafalcioni, e ci hanno dato ad intendere, ciocché non esiste in rerum natura", nonché i molti atti di orgoglio commessi dalla sua sicurezza intellettuale. È in questo contesto che matura la più grave sconfitta del Colucci, un colpo mancino tirato da un collega per evidenziare la sua incompetenza critica e filologica nella scienza antiquaria del tempo ed incassato in pieno dall'ingenuo storico.
L'abate di Brisighella Giambattista Tondini, amico, collega e critico del Colucci, e più volte da costui umiliato in campo storico, nel 1792 finse di ritrovare nelle campagne dell'ascolano un'epigrafe romana frammentata, e, scrivendo anonimamente al Colucci, lo pregò di pubblicarla nella sua opera. Il Tondini scrisse anche di aver diligentemente tentato la ricostruzione dell'epigrafe per congettura, completandola delle lettere assenti. L'epigrafe così ricostruita ed inviata al Colucci, presentava alcune lettere maiuscole (quelle presunte originali ritrovate, ma in realtà inventate dal Tondini) e minuscole (lettere aggiunte per congettura sempre dallo stesso), in modo da far risultare l'iscrizione di senso compiuto. Pur con qualche riserva sulla provenienza, il Colucci pubblicò sul XVII volume dell'opera la lettera e l'iscrizione del Tondini, non accorgendosi dell'inganno, infatti le lettere maiuscole, lette insieme, dicevano: "SE PUBBLICATE QUEST'ISCRIZIONE, VOI SIETE UN GRAN COGLIONE". Così il geniale Tondini si vendicò delle umiliazioni subite. Naturalmente il grave abbaglio preso dal Colucci non sminuì i pregi scientifici dell'opera, se pur questi v'erano; tuttavia, ciò insegna a noi moderni la reale difficoltà di scrivere la storia armati unicamente delle nostre congetture e del generico "ipse dixit", ma soprattutto questo fatto ci consiglia che un poco di umiltà anziché sminuire le cose, le rendono più accette agli occhi degli altri. Se con le sue conclusioni attinenti al tempio, il Colucci aveva raggiunto i confini della realtà, vi fu ne' tempi nostri un suo discepolo che lo superò di gran lunga, addentrandosi addirittura nel mondo delle favole per narrare l'epopea della sua patria; quel nume tutelare di un nuovo manipolo di letterati che posso sicuramente definire come il padre di tutte le fantasie piceno-cuprensi-maranesi: il monaco benedettino Bernardo Faustino Mostardi.

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