Racconto immaginario (in dialetto i dialoghi dei personaggi) del sig. Luigi Belli avente come sfondo i «Vincisgrassi». La scena si svolge nella casa di don Raffaele.

Un pò di storia
Di questo piatto della tradizionale cucina delle Marche, non si conoscono le vere origini. Una delle ipotesi è che la parola Vincisgrassi derivi dalla corruzione dialettale di quello del generale austriaco Windisgraetz [diventa anche Windschgrätz o Windisch Graetz (oppure Gratz) (ma esiste ancora la nobile famiglia omonima!)] comandante dell’esercito antinapoleonico che occupò Ancona nel 1799 (sul sito http://www.camillocavour.com/Risorgimento/ris093.html si parla di "...vittorie di Windisgraetz .."). Il suo cuoco personale avrebbe ideato la ricetta e ben presto la fama di una minestra tanto appetitosa si sarebbe estesa in tutta la zona.
Un’altra leggenda ne ricostruisce l’origine dando un tocco di colore alla vicenda. Il generale austriaco, stanco, accaldato e soprattutto affamato per un lungo giro di perlustrazione, si fermò in una casa di campagna. La vergara, alla quale fu richiesto un po’ di cibo, in considerazione dell’importanza del personaggio, cercò di preparare un piatto sontuoso con quanto aveva disponibile. Impastò dunque delle lasagne e fece un sugo con i ritagli di carne che poté rimediare, vi aggiunse anche le interiora di un malcapitato pollo che doveva servire come secondo e mise il tutto in forno. Il generale restò talmente colpito da questo piatto improvvisato che poi se lo fece preparare molto spesso anche dal suo cuoco personale. Si sa, fama volat, e la ricetta si diffuse con il nome del suo estimatore.
Altri sostengono che i Vincisgrassi erano già stati inventati quando il generale austriaco assaggiò la pietanza. In verità "Il Cuoco Maceratese "di Antonio Nebbia, manuale gastronomico del 1784, riporta la ricetta di una salsa per Vincisgrassi già in uso nel Maceratese; il Nebbia trasferisce il piatto ad almeno tre lustri prima, perché, in effetti, ciò che contraddistingue i vincisgrassi è proprio il condimento. Le lasagne, infatti, hanno una origine accertata ben più antica: in un documento tolentinate del 1542 si fa esplicito riferimento alla “farina pro lasagnis”; nulla si dice, però, sul tipo di condimento che le accompagnava.
In ogni caso questa specialità divenne subito di largo uso e con il tempo la preparazione cambiò secondo i costumi e le mode delle varie epoche.

VINCISGRASSI

Quella mattina don Raffaele si svegliò animato da due sensazioni che, fra di loro, non avevano nulla in comune.
La prima, più che una sensazione, gli parve una certezza: era domenica.
La seconda, invece, era qualcosa di indefinibile, di epidermico, come un presentimento che lo spinse a schiudere le palpebre e ad affissare lo sguardo sul finestrino della camera da letto che dava sulla campagna.
La luce algida che si spandeva nell'ambiente lo persuase che, nella notte, era nevicato.
Gli occhi, due fessure aperte fra l'orlo della berretta e quello della coperta tirata fin sopra il naso, diedero uno sguardo all'intorno identificando, fra luce ed ombre, la catinella sul suo treppiede, la poltrona col pizzo sullo schienale, il cassettone imponente, il lucore di un debole tizzo che s'andava spegnendo nel piccolo camino.
Le orecchie, ben coperte dai lembi della papalina, avvertirono lo strepito d'un ferro che cadeva sull'aròla, al piano di sotto, poi uno sguatterìo di ceramiche e il verso del gatto.
Che ore saranno state? le otto? le ottemmezza?
Senza muoversi d'un centimetro per paura di toccar con le parti calde il diaccio delle lenzuola a lui limitrofe, chiamò:
"Filomèeena..."
L'aria, nella stanza, aveva un che di sottile e gelido. Provò a cacciar fuori un poco di fiato e la nuvoletta che si formò non gli lasciò dubbi. Girò il capo verso il cuscino della moglie ma quella doveva essersi levata già da un bel pezzo tanto che la sua parte di talamo aveva un aspetto desolato. Chiamò ancora:
"Filoméeena..."
Macché. Da sotto venivano rumori di cucina e un chiacchiericcio ovattato di voci indistinguibili ma pur note comunque. Provò una terza volta, senza nemmen sapere lui stesso cosa, in fondo, davvero volesse:
"Filommèee..."
Senza speranza d'essere mai più udito si decise: gettate d'un lato coperte e linzuoli buttò le gambe giù dal letto e incollò le piante al pavimento. Un morso di gelo gli azzannò i polpacci magri, i piedi ossuti; cercò tentoni le pantofole di pezza, agguantò la veste da camera e, infilatala, se la strinse indosso, si chinò sul camino per attizzare quel poco di bracia che vi era rimasta quindi, strascinando le estremità, andò al davanzale.
La neve cadeva placida, a fiocchi abbondanti e spampanati, e già aveva ricoperto la campagna e la via delle mura chè quasi non si scernevano più le forme dei sedili di pietra allineati lungo la passeggiata né quelle dei paracarri e delle pietre miliari.
Una cortina grigia e velata impediva la visione del mare laggiù, in fondo alla valle, ed anche le colline e le poche case coloniche visibili avevan cambiato di forma, dandosene una arrotondata, del tutto priva d'ogni sorta di spigoli.
Il silenzio era totale: non un verso di bestia né di cristiano, non un carretto a passare per via, non una campana che suonasse; eppure don Raffaele si sentì gaio, eccitato, vicino assai ad uno stato di completa letizia.
"Uh! Jèsu, sennévica!"
Si stropicciò le mani e così com'era, pannis involutum, aprì la porta e si diede a scendere la buia scaletta interna che, dalla camera da letto, menava dabbasso. Nel breve tragitto si rammentò della piacevole incombenza che s'era riservato per la mattinata e non aveva ancora finito di spalancare il battente d'accesso all'anticamera che già chiamava:
"Chiaramona!"
Ma, precedendo la serva sull'uscio della cucina, donna Filomena apostrofava il marito:
"Che, ve sete rizzato don Rafè?"
e, senza aspettare risposta ma facendo gl'occhiacci a significare "badate come parlate", continuava:
"...ci sta l'Arciprete..."
Don Raffaele ricambiò quello sguardo con un'espressione che diceva "embè ?" e, varcata la soglia, tese le braccia al prelato deciso che niente e nessuno, quel giorno, avrebbe potuto rovinargli l'umore.
"Don Giovacchino carissimo..."
L'Arciprete, che fino a quel momento era rimasto seduto su di una seggiola con i piedi allungati verso il focaraccio del camino nel tentativo d'asciugarsi le suole e gl'orli della veste, si levò e, posata la tazza di cioccolatte che gli era stata offerta, la faccia stranita, andò incontro al padron di casa.
"Don Raffaele sapeste... scusate l'incomodo dell'ora... ma mi son premurato subito... appena la decenza lo permettesse..."
"Piano, piano, mettéteve asséde e tirate lo fiato..."
A don Raffaele più che le nuove che gli si volevano dare, qualunque esse fossero, premeva, in quel momento, ben altra cosa che infatti andava cercando con gl'occhi a giro per la cucina.
Era, questa, di ampio metraggio ed assai luminosa pigliando la luce da quattro finestrelle di sotto le quali s'allineavano i fuochi ed un battilardo per l'approntamento delle vivande. L'impiantito era di cotto bruno a spiga di pesce e le pareti, non rinfrescate da anni, di un caldo color ocra grazie al fumo disperso quotidianamente dal grande focolare. Un lungo tavolo con corredo adeguato di seggiole, una grande madia da impastarci il pane per la settimana e una bianca credenza ove riporre bicchieri e stoviglie ne completavano l'essenziale mobilio; per un usciolo, poi, si accedeva al locale dov'erano il pozzo, l'acquaio e gli scalini che andavano in cantina.
Vi ferveva, in quel mentre, una grande attività: più di una cazzarola di coccio sobbolliva sui fornelli sotto i quali, rosseggiando dalle grate degli sportelli che la serravano, ardeva una brace spessa. La serva Chiaramona, il vasto petto luccicante per il riverbero, la teneva viva arieggiandola con un ventilabro di penne di gallina.
Sulla parete di fondo, il nero battente del forno attutiva il crepitare delle fascine che lo stavano portando in temperatura e donna Filomena, aiutata dalle figlie Amina e Dosolina, toglieva dagli sparacci di lino le larghe sfoglie di pasta stese il giorno innante: s'era, infatti, al momento critico del complesso assemblaggio d'una teglia di lasagne e quell'intrusione proprio non ci voleva.
"Don Raffaele..."
continuò il presule con l'angoscia sul volto,
"... se ne venne un corriere, iersera, dall'Arcidiocesi con notizie inquietanti... il figlio di quel demonio... Bonaparte... il re di Roma... fu fatto imperatore dei franzosi..."
Don Raffaele parve non scomporsi, intento com'era a seguire le mosse delle quattro donne che, senza far motto, s'aggiravano per il vasto locale ciascuna animata da un suo preciso disegno.
Si sarebbero ricordate della balsamella ?
Da quando, svariati anni prima, avevano avuto ospite quell'austriaco, Windish Graetzi comandante della piazza, che gli aveva suggerito d'aggiungerne fra gli strati di sfoglia a dirozzare il sapore un pò ruvido del ragout, non poteva più farne senza.
"Bè, bè, ma non stava a Vienna ?"
E nel frattempo faceva mente locale se non si fosse dimenticato d'alcunché. Il giorno prima i suoi contadini Sante e Blandino (avvolti nel tabarro buono, i piedi costretti nelle ciocie di pecora, il feltro in capo) avevan recato gli ingredienti domandati: rigaglie di pollo, carne di maiale e di vaccina, un poco di quelle verdure che ancora eran rimaste nell'orto, un presciuttino e lardo fresco di taglio, dàtosi che quello in dispensa aveva preso del rancido e non si poteva più usare per il gattò. Don Raffaele aveva passato il pomeriggio a vigilare che la Chiaramona, gli irsuti avambracci bianchi di farina infino al gomito, tirasse la sfoglia da poterci guardare attraverso e che donna Filomena scottasse per bene le rigaglie (fegato, cuore, testa, collo, cresta e ranfi) prima di metterle a soffriggere nell'olio, col lardo battuto, le verdure e la cipolla picchettata coi chiodi di garofalo.
"... e ci sta ancora... ma voi capite... i precedenti... e quel che s'è passato... Dio non volesse..."
Ma intanto anche l'Arciprete perdeva il filo, distratto com'era da tutto quel culinario maneggio.
E un poco di bianco del Cònero, ce l'avranno messo ?
Don Raffaele non si ricordava ma si sarebbe dispiaciuto se quell'ingrediente fosse stato trascurato dato che conferiva al soffritto quel "corpo" che tanto bene faceva al retrogusto dell'intingolo.
"... ma via, Arciprete, stamo a parlà d'un frico di nemmeno cinqùanni..."
Discettava, è vero, di politica ma purtuttavia la sua mente era rivolta ai fornelli datosi che ora era passato a domandarsi se le vestali del suo pranzo avessero scrupolosamente cotto le carni nell'ordine della loro resistenza al calore: prima la vaccina e dopo il maiale ché, altrimenti, avrebbe rischiato di trovarsi sott'a i denti tanti sfrizzoli duri da masticare.
"... e poi, e poi, la duchessa Maria Luigia è donna cogli zebedei che persino a quello gli aveva messa la morsura... e, infine, sa bene essa che quel che è stato è stato e addietro nun se torna..."
L'Arciprete era rimasto senza altri argomenti che il suo personalissimo cruccio e dunque crollava il capo senza parlare, rigirandosi il tricorno fra le mani.
Guardò fuori la neve cadere.
"... a la messa delle undici non verrà chiduna..."
Donna Filomena interloquì:
"La direte per noi, la messa. Dosolina, vanne e apprepara la cappella..."
Don Raffaele s'era alzato e cogl'occhi e col gesto invitava il prete ad avviarsi.
"... ma sì, ma sì, il tempo di coprirmi..."
ma don Giovacchino esitava e, sogguardato ancora tutto quel bendiddìo in corso d'opera, sussurrò:
"... don Raffaele, siamo in Avvento..."
"... e dunque ?"
lo rimbeccò, risoluto ed altero, il nobiluomo.
" ... sete smesso ieri, de confessare ?"
Ma poi, più bonariamente e ricambiando il pispiglio,
"... ce ne sta per tutti..."
L'Arciprete chinò la testa, se non persuaso, sottomesso; rinculò fino all'uscio e scomparve seguito dalla Dosolina cui, pur di togliersi alfine dalla cucina dove da un pezzo stava seppellita, tornava gradito anche fungere da sacrista.
Don Raffaele scambiò con le altre tre donne uno sguardo d'intesa: bando alle frescacce, era ora di dedicarsi alle cose serie.
La serva Chiaramona, disposti con rapidità e destrezza tutti gli ingredienti sulla tavola, si affiancò a donna Filomena ed alla piccola Amina in attesa d'ordini. Per conto suo don Raffaele, così come ancora si trovava in berretta da notte e veste da camera, messosi cavalcioni d'una seggiola allegramente ordinò:
"Butirro!"
Il panetto color dell'avorio passò di mano in mano e, brandito alfine dalla Chiaramona, servì ad ungere ben bene la larga teglia di terracotta, usato ricettacolo di quelle delizie; un poco di mollica grattata disparsa su quell'untume ne butterò appena la levigata superficie.
"Presciutto !"
Donna Filomena, che portava appese alla cintura le chiavi della dispensa (come peraltro di tutti gli armoire della casa), s'era pigliata anche la coscienza di tagliare da quella sapida gamba, che per lo più se ne sarebbe stata appesa in cantina a pigliar aria dalla bocca di lupo, larghe fette alte un dito che ora dispose con maniera sul profondo della casseruola.
"La sfoglia !"
Amina, che aveva i ditini sottili, s'era invece presa la briga di ritagliare la pasta a misura del contenitore ed ora in quello la calò di giustezza, gli orli appena rialzati lungo le pareti.
"Lo sugo !"
E con una cucchiara di legno fu attinto generosamente dalla pignatta il condimento profumato e fumante e quindi sparso senza parsimonie su quella liscia estensione.
"Gli odori !"
La mano sapiente ed oculata della padrona distribuì in giusta proporzione il pepe schiacciato, la cannella e la noce moscata.
"La balsamella ?"
chiese, in ansietà, don Raffaele. Le tre donne, che ne conoscevano la gola, risposero in coro, ridacchiando:
"...ci sta, ci sta..."
E giù cucchiaiate della bianca salsa che venne tosto spianata con cura, facendo uso d'una spatola pulita per non bruttarne il candore con il sugo che andava a ricoprire.
"E, da ultimo, lo parmigiano grattato..."
Amina lo pigliava da una ciottola e lo faceva cadere con metodo e grazia sul composto, proprio come se fioccasse.
Don Raffaele s'alzò, tirandosi i lembi della veste a coprire la camicia da notte.
"E mò, così come s'è fatto, infino in cima. Da ultimo,altro che pasta, balsamella e tocchetti de butirro. Nello forno sino a che batte il tocco. Io, me ne vaggo a vestì."
Ma prima di risalire si pigliò la briga di mettere il naso fuori dall'uscio: attraversati l'anticamera ed il lungo corridoio buio che menava alla porta d'ingresso, sotto gli occhi degli avi che lo scrutavano truci dalle pareti, la raggiunse e, spalancatala, scese nell'atrio del palazzo.
Qui, solo il portone lo separava dal vicolo.
Fece scorrere il catenaccio, tirò il saliscendi e durò non poca fatica a socchiudere il battente ché la neve caduta aveva come sigillato gli stipiti e resa complicata una pur semplice operazione come quella d'uscir di casa. Mise fuori la testa annusando l'aria che sapeva di gelo e del fumo dei camini. Come quando, sorto dal letto, s'era accostato al finestrino della sua camera, esclamò:
"Uh! Jèsu, sennévica !"
Il resto della mattina passò, per don Raffaele, in banali incombenze: si deterse quel tanto che giudicò bastevole, si rase, si asperse d'acqua profumata, si vestì, andò in cappella e seguì il rito a fianco della moglie e delle figlie, distraendosi del continuo a guardare la neve di là dai vetri e ad odorare un effluvio malandrino che veniva lui ben sapeva da dove e che, ormai, aveva invaso tutta la casa. Accolse l' "ite, missa est" come una liberazione.
Dieci minuti dopo il tòcco fece nuovamente il suo ingresso in cucina dove aveva preteso che, su di un tavolinetto di servizio posto davanti al fuoco, gli fosse apparecchiato. Sedette, si posò un tovagliolo in grembo, si infilò la cocca di un altro fra il collo e la cravatta stendendoselo poi per bene sui revers della giubba e sul farsetto, se ne pose un terzo sull'avambraccio sinistro datosi che aveva l'abitudine, mentre pranzava, di pescare qualche bocconcino seducente anche dal piatto di portata e non voleva sporcarsi mentre lo tragittava sino alla bocca.
Prima di iniziare l'assalto a quella cospicua porzione che gli era stata posta dinnanzi, si girò a mezzo sulla seggiola e, più per cortesia che per un reale interesse, chiese alle quattro donne schierate dietro di lui in attesa di esaudire ogni sua desiderata:
"Sete magnato, voi ?"
Le sue balie fecero di sì, col capo.
"Ce ne stà pè lo prevete ?"
Donna Filomena rispose che già gliene avevano dato di bastevole da portarsi.
Ricordandosi poi dell'abilità della serva nello storpiare i nomi degli sconosciuti, chiese ancora:
"Chiaramona, come se diceva l'uffiziale che te se fece métte la balsamella nelle lasagne ?"
Quella, che era svelta di lingua e non si faceva intimidire da nessuno, prontamente gli rispose:
"E che, me lo scordo? Vincisgrassi..."
Rise don Raffaele, che quasi il boccone gli si fermava nella strozza.
Fuori, la neve continuava a cadere fitta ed ostinata: dava l'impressione che non avrebbe più smesso.

Milano, 3 febbraio 2004


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